Se la prima parte della nostra Carta Costituzionale – attinente ai principi fondamentali – è talmente ben pensata e scritta da farne la più bella Costituzione del mondo, la seconda parte che tratta l’organizzazione della Repubblica e dei suoi poteri – pur mantenendo una nobiltà di fondo – non ha preluso a un assetto stabile ed efficiente dei poteri e delle relazioni fra Stato persona, Regioni e Autonomie locali. Non è nemmeno esplicitato se il nostro sia un sistema federale, un sistema centralizzato oppure uno stato delle Autonomie. Questa premessa di fondo va tenuta presente quando si discute dell’assetto e dei poteri delle Istituzioni della Repubblica, mai configurato secondo un modello chiaro, equilibrato e generalmente condiviso.
La riforma del titolo V dell’anno 2001, secondo molti, ha aggiunto – e non tolto – elementi di ambiguità nell’assetto complessivo della Repubblica. Il complicato e sdrucciolevole congegno della cosiddetta “autonomia differenziata” è il classico prodotto di una mai risolta ambivalenza della regolazione dei poteri di “Stato” e “Regioni”: l’articolo 116 del nuovo testo costituzionale rimette a “legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali” la definizione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” da attribuire alle regioni a statuto ordinario, in aggiunta alle prerogative già previste dall’articolo 117. Ciò significa che possono essere demandate alle regioni che ne abbiano fatto richiesta la regolazione e la gestione amministrativa di una delle materie previste per loro come “legislazione concorrente”, più l’istruzione, la tutela dell’ambiente e dei beni culturali e la gestione della giustizia di pace.
A vent’anni dalla riforma del Titolo V non si registra alcun caso di attuazione di questa forma ulteriore di autonomia, salvo le richieste ufficiali presentate dalle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna – risalenti all’anno 2017 – di un perimetro più esteso di gestione (e di finanziamenti) dello spettro delle loro prerogative istituzionali. Il dibattito è apertissimo e vede in polemica due fronti contrapposti (si veda fra le altre la recentissima presa di posizione di Anaao – Assomed, uno dei sindacati più rappresentativi dei medici del Servizio Sanitario Nazionale – clicca qui). Nello scontro fra valutazioni opposte si ripropongono due tesi ormai “tradizionali”: quella delle regioni del Nord Italia che rivendicano la possibilità di gestire senza l’intervento esterno dello Stato le risorse finanziarie che provengono dai tributi versati dai cittadini lì residenti e quella di chi, al contrario, non accetta l’attribuzione a 20 autorità regionali autonome di materie e risorse quando entrino in gioco l’interesse e la coesione nazionale e l’esigenza di pari condizioni di cittadinanza.
Chi sia interessato ad approfondire gli aspetti tecnici del’Autonomia differenziata può leggere le relazioni degli uffici studi della Camera e del Senato, ciccando qui sotto.
Autonomia differenziata – Ufficio studi Camera
Accordi preliminari dossier_studi Senato
2019 ministro Boccia: bozza di legge quadro.
Chi voglia, in aggiunta, acquisire ulteriori elementi di carattere finanziario/giuridico potrà leggere l’allegata Relazione della Corte dei Conti dello scorso giugno 2021 (clicca qui ) che, in punta di diritto costituzionale, osserva quella che ci pare essere, al momento, una pietra tombale alle velleità delle regioni italiane “prime della classe”: “Una condizione propedeutica per la completa ed effettiva realizzazione del federalismo fiscale è la definizione dei livelli di spesa appropriati distinguendo tra spese LEP (fondate sui fabbisogni standard) e spese non LEP (basate sulla capacità fiscale). Sul punto si sottolinea che la Costituzione rimette alla competenza esclusiva dello Stato la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», senonché i LEP, pur previsti dall’art. 13 del d.lgs.n. 68/2011, non sono stati ancora definiti, mentre solo per il finanziamento del servizio sanitario nazionale opera un sistema fondato sui livelli essenziali di assistenza (LEA), che, comunque, presenta ancora margini di perfezionamento.”…”Il quadro di riferimento di ordine generale deve fondarsi nei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e nella definizione degli obiettivi di servizio. L’attribuzione delle risorse finanziarie, umane e strumentali, necessarie all’esercizio delle funzioni attribuite, deve essere vincolata alla definizione dei LEP in tutti i territori, in quanto, pur se avviata a partire dalle richieste di una singola Regione, la misura individuata è destinata ad essere di riferimento su tutto il territorio nazionale“. “Il conseguimento dell’autonomia differenziata all’interno di un quadro di riferimento unitarioe cooperativo, se da una parte rimanda alla necessaria definizione dei LEP, dall’altra rinvia alla necessità di realizzare una completa perequazione infrastrutturale, necessaria non solo per colmare le carenze di molte Regioni, in particolare del sud, ma anche all’interno delle Regioni più sviluppate, dove talvolta convivono situazioni di marginalità“.
Chi infine voglia tentare di capire quale sia la reale volontà della maggioranza e delle Regioni di procedere sulla strada di una “legge cornice” che fissi i principi da seguire in futuro per realizzare forme di autonomia regionale “a la carte“, potrà leggere le recentissime dichiarazioni del Ministro per gli Affari Regionali Mariastella Gelmini (vedi), nonché lo strano incidente del disegno legge in materia prima omesso, poi aggiunto all’ultimo momento nel NADEF fra i ddl collegati al disegno di legge di bilancio per l’anno 2022 – vedi qui.