Studiosi del calibro di Sabino Cassese (vedi qui) e Carlo Cottarelli (vedi qui) hanno riservato un’accoglienza positiva e lusinghiera al testo di Tito Boeri e Sergio Rizzo “Riprendiamoci lo Stato”, edito da Feltrinelli lo scorso settembre. Li segnaliamo e ne prendiamo atto col dovuto rispetto.
Per noi, invece, la valutazione è fortemente negativa e cerchiamo di spiegarne di seguito i motivi.
….anzi il motivo! C’è un aspetto evidente e fondamentale del libro, che gli autori non nascondono, anzi presentano come prova di una malattia grave che essi, buoni ultimi, diagnosticano per la pubblica amministrazione italiana: l’essere il testo disseminato per parte preponderante da rivelazioni di scandali e di episodi ridicoli e paradossali di cattiva amministrazione; a cominciare dall’incipit del libro, in cui Boeri riceve dall’Agenzia delle Entrate un’ingiunzione di pagamento di 30.000 euro per contributi previdenziali che egli come presidente dell’INPS e suo rappresentante legale non ha versato al presidente dell’INPS !!! Molto gustoso, certo!
Tito Boeri in questo libro ci appare (e, secondo noi, si compiace di apparire, soprattutto al suo mondo di intellettuali engagé) come una sorta di esploratore del secolo XIX il quale, novello Livingston, narra le sue impressioni di viaggio al ritorno nella civiltà’ dopo quattro anni vissuti in INPS, cioè’ nella giungla in mezzo ai popoli selvaggi. Delle 327 pagine del libro, ne abbiamo contate più’ di 200 interamente occupate dal racconto (sempre in toni derisori e ironici) di una serie di episodi e situazioni specifiche, in larga parte non commendevoli e censurabili.
Ma, al netto dell’indubbio talento nel raccontare – gli autori hanno inventato un altro termine molto figo, “poliburocrazia”, fortemente evocativo ma che non vuol dire il resto di niente – l’effetto finale inevitabile di un libro congegnato in un tal modo è identico a quello che si trasse tutti dalla lettura de “La Casta”: una forte dose di rabbia e di biasimo nei confronti della burocrazia e di tutto il mondo politico, sindacale e dirigenziale.
Ma niente di più.
Risolve qualcosa questa jacquerie letteraria? Assolutamente nulla, iniziando dal titolo dal sapore chiaramente giacobino di “Riprendiamoci lo Stato“. Ohibò! Ma lo sanno gli autori che la burocrazia nasce dallo Stato assoluto di Luigi XIV di Francia e si evolve come strumento di governo dei ceti politici al potere, diventando via via nel tempo lo strumento ineliminabile di successo di qualunque politica pubblica uno Stato metta in campo? (cit. Max Weber, do you know?)….Certo che lo sanno! Ma la tentazione di “buttarla in caciara” e di descrivere il ridicolo e l’inaccettabile, limitando gran parte del proprio dire solo a questo, ha prevalso.
Intendiamoci: la denuncia e lo scandalo per fatti e situazioni inaccettabili sono il succo e il sale delle dinamiche di un Paese democratico. Ma l’impegno del vero riformatore non si ferma mai lì. Proprio l’argomento corruzione ci offre lo spunto critico decisivo: la corruzione è una malapianta che attecchisce in qualunque Stato o contrada del mondo. Sarebbe strano che non ci fosse anche nel nostro Paese. Tuttavia da noi il fenomeno è più grave; perché in Italia la corruzione è così pervasiva? Visto da questo punto di vista, l’argomento corruzione non lo risolvi (solo) denunciando questo o quello scandalo. La denuncia – necessaria e fondamentale (oportet ut scandala eveniant) – diventa UTILE per la comunità’ civile SOLO se ha un seguito di indagine sulle CAUSE dell’estensione anomala del fenomeno: allora, devi capire e fare proposte legate alla repressione giudiziaria (perché in Italia solo lo 0,9% dei detenuti con sentenza passata in giudicato è colpevole di reati finanziari o corruzione, contro lo 12% della Francia e il 18% della Germania? – vedi qui a pag. 49 https://www.sistemapenale.it/pdf_contenuti/1587581089_space-i-2019-carcere-in-europa-final-report.pdf); qual’è l’impatto e l’efficacia delle misure preventive, quale ad esempio il funzionamento efficace dei whistleblower? Qual’è il livello d’efficienza dei controlli sull’operato delle circa 14.000 amministrazioni pubbliche in cui si articola il nostro sistema istituzionale? Perché molte leggi dello Stato (la più’ rilevante la legge Severino dell’anno 2011) non sono riuscite ad erodere la potenza pervasiva di questo cancro? Hanno espresso qualsivoglia proposta Boeri e Rizzo su questi temi? Solo qualche scheggia di ragionamento qui e là, ma niente più. Certo, è più’ difficile la strada dell’analisi delle cause e di proposte e idee nuove ed efficaci; ma è l’unico modo utile affinché noi tutti non ci si ritrovi fra dieci anni a gioire amaramente sui racconti che ci faranno altri Boeri e altri Rizzo su altri scandali nel frattempo intervenuti!
Non si modificano situazioni anomale con la sola esposizione brillante delle patologie in corso. Questo tipo di narrazione impedisce di indagare sulla parte sommersa dell’iceberg.
Il potere sindacale per dire: non fai l’analisi della presenza del sindacato nelle pubbliche amministrazioni raffigurando il percorso di carriera di un dirigente che da ragazzo giocava a rugby oppure denunciando per la decima volta lo sconcio di pensioni liquidate in modo anomalo a causa di clamorosi “bachi” legislativi; oppure denunciando i danari trasferiti annualmente dalle finanze INPS ai patronati! Questo è teatro: la denuncia vera si opera andando alla fonte delle patologie, cioè analizzando, nel caso in questione, qual’è il ruolo che la legislazione ha assegnato al sindacato negli ultimi trent’anni, dove si sono manifestati margini di sfondamento nella cogestione (sistemi di valutazione, sistemi di determinazione dei fabbisogni di risorsa umana, percentuali di interni con posti riservati nei concorsi pubblici esterni, dinamica delle carriere). Senza procedere oltre su questo argomento, che usiamo a mo’ di esempio, lo spazio del libro sarebbe stato ben speso se l’analisi sulla burocrazia italiana, magari citando anche casi limite, si fosse spinta nell’approfondimento delle cause e, sperabilmente, nella proposta di correttivi. Di grandissimi correttivi, aggiungiamo noi; perché la questione della burocrazia italiana non può risolversi se non si toccano i grandi nodi del rapporto Parlamento/amministrazione (nel senso di una maggiore vigilanza), degli equilibri della multilevel governance Stato/Regioni/Enti locali, le cui evidenti distonie si proiettano sulle relazioni reciproche delle burocrazie di riferimento, degli equilibri di potere politica/dirigenza/sindacato, dei sistemi di valutazione delle amministrazioni pubbliche e dei singoli addetti, dello status della dirigenza, dei sistemi di controllo sugli atti, dell’etica di servizio. Non sono “i fannulloni” la causa dei disservizi delle amministrazioni della Repubblica, ma i ripetuti fallimenti nella regolazione di queste materie decisive per il buon funzionamento, sulle quali altri Paesi sono intervenuti efficacemente da secoli.
A onore del vero l’ultimo capitolo del libro è pudicamente intitolato “Piccole idee per riprenderci lo Stato”: ma sono ottime petizioni di principio, “piccoli interventi, anziché grandi proposte tanto rivoluzionarie quanto ai confini della realtà”. Hanno riflettuto gli autori sul fatto che tante piccole misure di buon senso quali quelle proposte possono e potrebbero essere comprese e attuate da chiunque operi dentro la macchina pubblica? Perché ciò non accade quasi mai? Il punto vero è comprendere questo. Il livello di risposte di cui necessita la pubblica amministrazione si colloca su un livello superiore, istituzionale e strategico: in un libro che ha come sottotitolo “come l’Italia può ripartire” era quello il livello di approfondimento auspicabile. Invece la proporzione di due a tre fra le pagine di denuncia e le pagine di analisi/proposta sta lì a dimostrare – ma Boeri e Stella sono gli epigoni di una tradizione antica – che si ritiene più efficace la leva della critica “ebbasta”.
Una gran parte del ceto accademico e intellettuale del nostro Paese tratta da sempre la burocrazia come un fastidioso ingombro, come un oggetto da deridere e mortificare, tirandosi dietro a pappagallo i grandi organi d’informazione. Il ceto intellettuale italiano si sente da sempre estraneo e superiore all’Africa di Livingston; senza capire che somiglia sempre di più alle paperelle che galleggiano su uno stagno di acqua immobile.
Giuseppe Beato