Carlo D’Orta, già Capo dipartimento alla Funzione pubblica, entra a buon diritto nel ristretto novero di persone che nel corso degli anni ’90 pensarono e aiutarono Ministri e Parlamento a realizzare l’epocale riforma della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego. Egli stesso, nel saggio che qui riproduciamo per via telematica, ricorda di aver supportato i ministri Sacconi, Cassese, Bassanini e Frattini insieme ad altri alti “consulenti” quali Tiziano Treu, Franco Carinci, Mario Rusciano, Gaetano D’Auria e Lorenzo Zoppoli, per non citare primo fra tutti il compianto Massimo D’Antona, trucidato nell’anno 1999 dalle Brigate Rosse. Un consesso di giuristi e dirigenti pubblici unito dalla convinzione di fondo che fosse necessario uscire dal recinto del diritto amministrativo nella gestione dei rapporti di pubblico impiego e omologare le regole del lavoro dei pubblici dipendenti a quelle dei lavoratori privati, così come regolate dal codice civile. Quel movimento d’idee si tradusse, come noto, prima nel decreto legislativo n. 29/1993 e in seguito in successive nuove “ondate” di legislazione racchiuse in versioni via via modificate del decreto legislativo n. 165 del 2001, che non si consolidò mai definitivamente, ma fu sottoposto a rilevanti modificazioni, rispettivamente negli anni 1998, 2002, 2009 e, ultima, quest’anno con il decreto legislativo n. 75 del 25 maggio 2017 – vedi qui. La storia e lo spirito di quelle riforme sono rivissute nel lungo saggio di D’Orta dello scorso 2011 qui sotto riportato; le sue valutazioni finali sugli esiti della “privatizzazione” furono peraltro sintetizzate in un successivo intervento a un seminario presso il Dipartimento della funzione pubblica nel febbraio 2013 – vedi qui il suo intervento. In seguito, presumiamo dopo un bilancio anche personale di quanto accaduto, di lui perdiamo le tracce.
D’Orta ci lascia con alcune sconsolate e definitive osservazioni quali quelle che estraiamo dal suo saggio: “Erano ancora vive e ottimistiche le aspettative che l’introduzione anche in Italia delle logiche anglosassoni del “New Public Management” avrebbe impresso una svolta dura ma salutare all’amministrazioni nostrane liberandole almeno nella gestione di risorse umane dei lacci e lacciuoli del diritto amministrativo per metterlo a servizio degli utenti il nome di una gestione ispirata alla cultura aziendale dell’economicità, efficienza ed efficacia” (pag. 1). ” Purtroppo oggi a distanza di anni è inevitabile guardare con disillusione al percorso fin qui compiuto perché quasi tutte le principali aspettative sono andate alla prova dei fatti deluse. Ed è inevitabile guardare con altrettanto scetticismo anche alle ulteriore ricette e correttive messe in atto nel 2009 con quella che è stata definita la terza stagione di riforma del pubblico impiego.” (pag. 2).
Per illustrare il fallimento di quel processo di snellimento, efficientemento e slancio che egli attendeva dalla “conversione” giuridica del rapporto d’impiego pubblico dal diritto amministrativo al diritto comune, l’Autore ripercorre e descrive nei particolari un processo normativo di “conversione” al diritto comune in corso da decenni: tale percorso è stato via via disseminato da un reticolo talmente pesante di norme, di vincoli e di specificità, tale da rendere impossibile quella “gestione da privato datore di lavoro” che, nel mondo dell’imprenditoria, caratterizza attività e ruoli degli attori principali. Anche in questa analisi, come quelle precedentemente presentate in questo sito emerge il travisamento nei fatti del ruolo dei dirigenti pubblici, cui quel progetto assegnava appunto la funzione di “datore di lavoro privatizzato”. Egli così scrive “Conditio sine qua non per il successo della “privatizzazione” del lavoro pubblico è, dunque la riproduzione di una figura simile; di qualcuno che abbia, nei singoli ministeri ed enti, ruolo, autonomia e poteri realmente corrispondenti a quelli di un amministratore delegato; di qualcuno che, come l’amministratore delegato di una impresa, sia tenuto ad attenersi agli indirizzi strategici della proprietà, si confronti anche costantemente con essa sulle principali decisioni operative e ad essa risponda poi periodicamente per i risultati, ma goda di piena e reale autonomia nella gestione quotidiana. Ebbene, il problema della nostra riforma del lavoro pubblico è che questo modello, correttamente disegnato sulla carta dalle norme del 1993-1998, non è mai stato davvero attuato e anzi, a partire dal 1999, è stato progressivamente sostituito da un altro modello, frutto di un’opera progressiva e bypartisan di “distorsione della riforma”. In pratica: Governo, legislatore ed organi politici al vertice delle varie amministrazioni statali, regionali e locali hanno preferito assicurarsi il “controllo” dell’apparato puntando sullo spoils system e sulla precarizzazione/fidelizzazione della dirigenza, piuttosto che sui pur delineati sistemi di pianificazione degli obiettivi e controllo sui risultati. In tal modo, e dal proprio punto di vista, gli organi politici hanno conseguito facilmente un duplice obiettivo: mantenere un controllo sulle singole attività assai pervasivo e costante, e farlo per di più senza nemmeno (come avveniva fino al 1993) la responsabilità personale per la firma diretta degli atti di gestione. Ma, dal punto di vista della riforma, l’effetto è stato disastroso, perché la dirigenza è stata indotta – salvo eccezioni – ad operare non secondo logiche manageriali, ma secondo logiche di adesione alla volontà e ai desideri dell’organo di governo, pena la certezza del mancato rinnovo dell’incarico alla prima (magari anche ravvicinata) scadenza, quali che fossero i risultati di gestione, e paradossalmente anche in presenza di risultati molto positivi. Gli strumenti per ottenere questa progressiva “fidelizzazione” della dirigenza sono stati: l’ampliamento progressivo degli incarichi dirigenziali soggetti a decadenza ad ogni rinnovo dell’organo politico (cosiddetto “spoils system”), inizialmente limitati a segretari generali e capi dipartimento dei Ministeri e poi estesi nello Stato ai direttori delle agenzie (che erano nate per distacco dai ministeri proprio per valorizzarne la natura di organismi “tecnici”) e nelle regioni ed enti locali ai dirigenti generali 67; il ricorso, soprattutto nei ministeri, a periodici azzeramenti ope legis di tutti gli incarichi dirigenziali, di qualsiasi livello, come avvenuto nel 1999 e nel 2002 e ancora, seppure limitatamente agli incarichi dirigenziali conferiti ad esterni, nel 2006; la breve durata degli incarichi dirigenziali.” (pag. 46).
Un’Amministrazione pubblica più ingessata di prima: “Nella sostanza, invece, le nuove regole non hanno affatto reso più snella e fluida la gestione del personale; anzi, non è difficile trovare, nei contratti collettivi di questo periodo e in quelli successivi, limiti, procedure e vincoli all’esercizio dei poteri di gestione del personale non diversi, e talvolta più penetranti, di quelli recati dalle preesistenti norme legislative. E un serio contributo in questa direzione hanno dato le procedure di “partecipazione sindacale”, nel settore pubblico assai più pervasive che in qualsiasi comparto privato.” (pag. 50).
Si vedano in tal senso le coincidenti conclusioni di Dell’Aringa, Battini, Deodato, Talamo.
Si potrebbe magari argomentare che il saggio fu scritto ben 6 anni fa e che, nel frattempo, è intervenuta una nuova “riforma” tradottasi nelle solite insopportabili “novelle” che hanno modificato per l’ennesima volta l’impianto del decreto legislativo 165 del 2001, a modo di ristrutturazioni edilizie di interni che toccano sempre i muri maestri elevati dai precedenti Governi. Su questo punto è lo stesso D’Orta a rispondere con una folgorante e profetica osservazione dell’anno 2011 sui destini futuri della privatizzazione: “Alla luce di questi elementi, è abbastanza agevole intravedere, dal 1990 in poi, una stretta connessione tra fasi politiche, visioni prevalenti sulla riforma dell’amministrazione e ruolo crescente o declinante del sindacato all’interno della legislazione sull’amministrazione. A questa lettura non si sottrae nemmeno il d.lgs 150/2009 che, come già detto, ha senz’altro un punto rilevante, e forse il più qualificante, nella drastica ridefinizione dei confini tra legge e contrattazione collettiva e nella riaffermazione del potere organizzativo/gestionale unilaterale delle amministrazioni, cui fa da pendant il forte ridimensionamento del ruolo del sindacato. Proprio la drastica intensità di questa ridefinizione dei ruoli rende, però, anche facile preconizzare la temporaneità del nuovo assetto. Il sindacato esprime una forza tenace, con una continuità di linea e una costanza di pressione ignote “per definizione” a istituzioni (come Governo e Parlamento) soggette alle regole dell’alternanza. Come non supporre, allora, una nuova oscillazione del pendolo, questa volta più aperta alle istanze sindacali e alla valorizzazione della contrattazione collettiva, in presenza di una nuova legislatura di centro-sinistra, o anche solo di un ministro della Funzione pubblica espressione di culture politiche più “partecipative”. Carlo D’Orta descriveva nell’anno 2011 quello che é effettivamente accaduto nel 2016/2017 allorché, dopo un repentino “riavvicinamento” della Ministra Madia, concretizzatosi con l’accordo Governo/ Sindacati del 30 novembre 2016 – vedi qui, la legislazione del pubblico impiego ha compiuto l’ennesima giravolta – questa volta con il pendolo oscillato verso la prevalenza della contrattazione collettiva come fonte del diritto del lavoro pubblico (vedi sul tema la nostra dichiarazione “Il decreto Madia sul pubblico impiego è un ritorno al passato”) .
Ma è il meccanismo complessivo stesso della “privatizzazione” che non funziona, come i più sensibili cultori della materia segnalano ormai da anni. E non si tratta, come afferma Franco Bassanini da un quindicennio a questa parte, di una “mancata implementazione e applicazione non corretta dei principi della privatizzazione“…..Se la “malattia” della scarsa efficienza e poca qualità dell’amministrazione pubblica italiana continua ancora oggi 25 anni dopo la diagnosi e le terapie avviate e sostenute dai “privatizzatori“, ciò fa presumere oltre ogni ragionevole dubbio che sono diagnosi e “ricetta” ad essere errate.
Giuseppe Beato
Carlo-D’Orta: il fallimento della privatizzazione anno 2011