Le riforma bloccate dalla burocrazia

Il Corriere della Sera si è distinto negli ultimi tempi – sicuramente nella parte centrale del 2013 – in una campagna di stampa condotta dai suoi polemisti di punta – Galli della Loggia, Stella, Rizzo, Panebianco – intorno a un tema centrale: le riforme istituzionali bloccate e l’azione frenante della “burocrazia”. Pubblichiamo una rassegna degli interventi più significativi. Al di là dell’indubbio interesse dei temi  e degli argomenti toccati, il tono e l’impostazione degli articoli si rifugiano sempre, alla fine, in uno spirito di insofferenza verso gli attori e gestori di questa situazione, che genera rabbia e desiderio di “fare piazza pulita”. Ma chi fa parte della classe dirigente di un Paese non può rifugiarsi dietro queste conclusioni. Sarebbe necessaria qualche idea “di sistema” che si possa tradurre in iniziative concrete. Altrimenti si favoriscono atteggiamenti ed esiti demagogici. Inoltre, forse, bisognerebbe andare a toccare un tema, tanto fondamentale quanto elusivo nel suo manifestarsi quotidiano: i caratteri e l’indole profonda degli Italiani, o, se si preferisce, dell’attuale momento storico culturale in cui gli Italiani vivono ed operano….vasto tema…tuttavia decisivo……..soprattutto per indagare sulla resistenza di fondo del nostro popolo, di tutti noi alla fine, a qualunque riforma, da chiunque sia promossa.

Corsera 9 maggio 2013 Giavazzi Burocrazia inossidabile

Corsera Panebianco 14 luglio 2013 La ragnatela del non fare

Corsera maggio 2013 Sergio Rizzo le riforme incagliate

Corsera maggio Sergio Rizzo 2013-Burocrati-inamovibili

Corsera 8 luglio 2013 – La burocrazia blocca il Paese

Corsera 7 lug 2013 – La paralisi del formalismo

 

Giacomo Leopardi: discorso sopra lo stato degli Italiani

Molto più educativa della lettura dei “commenta” di facebook é l’immersione in uno scritto del 1824, in cui il Leopardi saggista esamina nel suo “Zibaldone”, con forza analitica e completezza di pensiero, i caratteri della nostra etica pubblica. Non solo poeta sommo quindi il Nostro, ma Italiano animato da grande passione civile. Egli individua nell’ “onore” – inteso come attenzione per l’opinione che gli altri hanno di noi e, reciprocamente, come rispetto delle persone del nostro prossimo –   la base sociale che tiene ferma e forte la tenuta morale, il sistema di valori e la coesione civile in Francia, Inghilterra, Germania e nei popoli “giovani” del nord dell’Europa. Per contrasto, Leopardi decrive le elites –  da lui chiamate “società stretta” – italiane, osservandole come malate di indifferenza, indolenza, cinismo, mancanza di immaginazione. L’individualismo, il disprezzo reciproco come cifra del rapportarsi al proprio prossimo che questo “virus” mentale genera – all’opposto degli atteggiamenti educati al “rispetto reciproco” – allontanano qualunque possibilità di riferirsi e rinsaldare una morale comune e “massimamente minano” la convivenza civile. Intuizioni illuminanti sul carattere degli Italiani e su come questo “ethos”, o mancanza di “ethos”, pervada tutte le forme del vivere comune.

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Beppe Severgnini: 8 porte sul futuro.

Nulla più che la copertina di un recente libro del noto giornalista. Ma già da sola basta a infondere un senso di ottimismo, perchè analizza i tratti del nostro popolo guardando al futuro e non abbandonandosi ad una rassegnata osservazione del presente.

Severgnini libro: gli Italiani di domani.

Asor Rosa La scomparsa del popolo

La scomparsa del popolo

di Alberto Asor Rosa, da Repubblica, 2 ottobre 2012

L’ondata di indignazione e di condanna seguita alla pubblicazione dei dati (certo impressionanti) sulla corruzione regionale laziale – molto commendevole, anche se in ritardo – ha lasciato in ombra un tentativo di analisi sociale del fenomeno.
Prima di lasciar la parola agli esperti, esporrei la mia tesi: e cioè che degrado, deperimento dei valori e corruzione (non più eccezionale, ormai, ma endemica, diffusa e resistente) affondino le radici in un vero e proprio spappolamento socio-economico del popolo italiano.

Io sono uno che, molti anni fa, ha creduto che dalla classe operaia sarebbero scaturite le nuove élite, destinate a guidare verso altri traguardi i destini nazionali. Ciò, come è evidente, non è accaduto: la classe operaia, oggi, lotta prevalentemente, e spesso con vera disperazione, per la propria fisica sopravvivenza. Ma non è neanche accaduto che le fonti tradizionali di formazione delle élite (i partiti, le classi sociali dominanti) abbiano continuato, come per un certo periodo era accaduto, a farlo. Dov’è stata la borghesia, c’è stata una borghesia in Italia in tutti questi anni?

È endemica l’assenza di compattezza e di consapevolezza da parte del popolo italiano (endemica in questo caso vuol dire: secolare). In Italia niente mai che abbia interpretato il ruolo di le peuple o di das Volk (magari anche con gli aspetti retorici e reazionari che essi a casa loro hanno talvolta assunto, ma al tempo stesso con gli innegabili vantaggi che ne sono derivati, dentro e fuori i confini statuali). Fra la Liberazione e, grosso modo, gli anni ’70 ha sopperito l’azione dei grandi partiti di massa (sopperito, si badi bene, non sostituito). Quando tale azione è venuta meno, è cominciata l’opera di sfarinamento, su di un soggetto in partenza assai debole, di cui vediamo oggi gli esiti ultimi. Se le classi tradizionali e i cosiddetti “ceti intellettuali” (professionisti, insegnanti, persino imprenditori) si sono ritirati sullo sfondo, a contemplare, più allibiti che critici, più passivi che attivi, lo sfascio dilagante, cosa resta al centro della scena?

Recentemente si è tornati a parlare, anche a sinistra, anche dai miei vecchi sodali operaisti, di popolo. Ma la categoria, e soprattutto la realtà, ne sono profondamente mutati. Popolo è concetto nobile, non merita d’essere banalmente assimilato all’uso che se ne fa nelle pur giuste polemiche antipopuliste.

All’inizio del degrado ci sono la crisi della politica e la catastrofe dei partiti di massa fra gli anni ’80 e i ’90. Le ha aperto la strada, e proprio nello specifico senso che stiamo usando, la precorritrice, devastante avventura craxiana. Poi è intervenuta, partendo esattamente da lì dentro (anche in senso strettamente sociologico) e fornendo al tempo stesso alla populace una miriade di modelli assolutamente simpatetici e imitabili, la lunga fase berlusconiana. Infine, più recentemente, è sopravvenuta, in maniera forse inaspettata ma non irrilevante, una forte componente neo-veterofascista: il fascismo, quello autentico, è sempre stato portatore di una disponibilità corruttiva profonda.

Il risultato è stato devastante: il popolo italiano si è disgregato in una serie di frammenti, spesso contrapposti fra loro e ognuno alla ricerca della propria personale, individuale e/o settoriale ricerca di affermazione, di denaro e di potere (esiste anche una variante localistica di tale dissoluzione, gravida tuttavia anch’essa di fattori di corruttela: il leghismo ne rappresenta il frutto e l’interprete più autentico).

Dallo spappolamento e dalla scomposizione della “figura popolo”, e di coloro che per un certo periodo di tempo avevano più o meno legittimamente preteso di assumerne la rappresentanza, è emerso un nuovo ceto sociale, il residuo immondo che sopravvive quando tutto il resto è stato digerito e consumato. Il vero, grande protagonista della corruzione italiana è questo ceto sociale, una classe tipicamente interstiziale, frutto dello spappolamento o dell’emarginazione o del volontario mutismo delle altre, priva assolutamente di cultura e di valori, ignara di progetto, deprivata all’origine e secolarmente di ogni potere, oggi famelicamente alla ricerca di un indennizzo che la risarcisca della lunga astinenza (oltre che i consigli regionali riempie freneticamente gli outlet, inonda le autostrade di Suv, aspira ad una visibilità da ottenere con qualsiasi mezzo, non teme per questo né il grottesco né l’osceno, parla una lingua che non è più l’italiano ma una sua bastarda, ridicola caricatura). Insomma, come in un incubo notturno il sogno berlusconiano ha preso corpo.

Tale classe, non solo promossa ma anche furibondamente corteggiata da alcuni, ma anche autopromossa in numerosi altri casi, ha cominciato a invadere la politica nazionale, si affaccia qua e là nei gruppi dirigenti di taluni partiti, siede ormai in abbondanza nelle aule parlamentari. Ma ha preso già direttamente il potere in numerose realtà regionali, sotto e sopra la linea delle palme, a testimonianza del fatto che il fenomeno è effettivamente nazionale, non locale. La precisazione che a questo punto ne facciamo induce forse a pensare che l’istituzione regionale abbia a che fare con la crescente affermazione di tale classe in politica e nella gestione del potere in Italia? Non avrei dubbi a rispondere affermativamente.

In un Paese come il nostro dove le peuplenon è quasi mai realmente esistito e l’idea di nazione è sempre stata così fragile e precaria (può esistere una nazione senza un popolo? può esistere un popolo senza una nazione?), la regionalizzazione ha aggravato le resistenze al processo unitario e ha spinto in avanti un ceto politico improvvisato e parassitario. Siamo ancora in tempo: invece di abolire le province, che sono innocue, bisognerebbe abolire le Regioni e tornare allo Stato unitario (meno ceto politico, enormemente meno spese, rafforzamento utile e conseguente dell’istituzione comunale, l’unica veramente italiana).

Se queste considerazioni fossero minimamente fondate, ci vorrebbe ben altro per battere l’abominevole classe emergente che una campagna (del resto molto, molto tardiva) di moralizzazione, diciamo così, di tipo pecuniario. Bisogna combattere e cancellarla in re, cioè nei suoi motivi sostanziali di sopravvivenza e di… fioritura. La situazione è tanto grave che persino una parte del movimento soi disant d’opposizione assume modi, linguaggi e richieste dell’abominevole classe (Grillo, ovviamente, ma non solo). Ricomporre il popolo, pur nella diversità delle opinioni politiche, dandogli una prospettiva strategica che punti innanzi tutto all’isolamento, alla sconfitta e alla cancellazione dell’abominevole classe emergente, è il compito di questo grande momento che sta di fronte ai nostri politici sani: moralità, sì, ma al tempo stesso contegno e cose e sostanza – insomma, la riforma intellettuale e morale, ma accompagnata da un serio programma economico. Chi avrà il coraggio e la forza di assumerselo fino in fondo?

 

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Aforismi fulminanti di Ennio Flaiano

Flaiano

Ennio Flaiano

Pescara 1910 – Roma 1972

Autore di aforismi fulminanti, raccolti in due volumi: “Autobiografia del Blu di Prussia” e “Diario degli errori“.

  1. A furia di leccare qualcosa sulla lingua rimane sempre.
  2. Gli italiani corrono sempre in aiuto al vincitore.
  3. Se non si e’ di sinistra a vent’anni e di destra a cinquanta, non si e’ capito niente della vita…
  4. I nomi collettivi servono a fare confusione. “Popolo, pubblico…”. Un bel giorno ti accorgi che siamo noi; invece credevi che fossero gli altri.
  5. L’italiano ha un solo vero grande nemico: l’arbitro nelle partite di calcio, perché emette un giudizio.
  6. Se i popoli si conoscessero meglio si odierebbero di piu’.
  7. Oggi il cretino è pieno di idee.
  8. L’italiano è una lingua parlata dai doppiatori.
  9. L’inferno di Dante è fatto da italiani che rompono i coglioni ad altri italiani.
  10. L’italiano è mosso da un bisogno sfrenato d’ingiustizia.
  11. Lei è comunista, io aristocratico, tutte e due odiamo il popolo: la differenza è che lei riesce a farlo lavorare.
  12. Io comunista? Non posso permettermelo. Non ho i mezzi.
  13. L’insuccesso mi ha dato alla testa.
  14. In Italia non esiste la verità. La linea più breve tra due punti è l’arabesco.  Viviamo in una rete di arabeschi.
  15. La psicanalisi, cara signora, è una pseudo-scienza inventata da un ebreo per convincere i protestanti a comportarsi come cattolici.
  16. In Italia, diceva un americano a un altro, i polli girano crudi per strada.
  17. Questo popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti, di cognati.

 

Galli della Loggia – I tre pilastri della conservazione

PRIVILEGI, CORPORATIVISMO, DEMAGOGIA

I tre veri pilastri della conservazione

Da più di vent’anni le «riforme» sono il grande mito della politica italiana. Invocate da tutti, promesse da tutti, dalla destra, dalla sinistra, quasi mai realizzate da nessuno. Ma regolarmente, imperturbabilmente, promesse sempre di nuovo da tutti. Sono il grande mito perché per giudizio unanime (ultimo quello del governatore Draghi: «L’Italia ha un disperato bisogno di riforme») sono la sola cosa da cui il Paese può sperare la salvezza: e cioè di riguadagnare il terreno che stiamo perdendo in tutti settori, di riacquistare efficienza, di ricominciare a crescere, di tenere insieme le sue varie parti. Continua a leggere

Galli della Loggia – Conservatori e immobilisti

 EGOISMI E PAURE TRASVERSALI

Conservatori e immobilisti

Sì, Berlusconi si sta rivelando un pessimo presidente del Consiglio, non si sa come mandarlo via e di fronte alla crisi economica il governo si è mostrato di una pochezza e una goffaggine uniche. Sì, l’opposizione riesce solo a balbettare ma non è capace di nessuna proposta alternativa seria. Sì, la maggioranza è spaccata e l’opposizione è divisa. E per finire c’è l’abominevole casta che tutti ci sentiamo così bravi e onesti a detestare. È tutto vero, sì, l’Italia è tutto questo.
Ma chi cerca di non fermarsi alla superficie sa che nessuno di quelli ora detti è il problema vero del Paese. Continua a leggere

Generazioni perdute

 I TANTI TALENTI COSTRETTI A EMIGRARE

Generazioni perdute

La manifestazione dei precari di sabato scorso ha ricordato agli italiani che il loro è un Paese che riserva ai giovani una condizione di estremo sfavore. Ma non solo perché trovare un lavoro stabile è un’impresa disperata. Anche perché (e forse tra i due fenomeni c’e una relazione) ai posti che si dicono di responsabilità – cioè nei posti che contano – si arriva, bene che vada, tra i 50 e i 60 anni, e ci si resta per decenni. Continua a leggere

Italia: i contorni di una identità

Il paradosso di un Paese diviso sull’Unità che lo ha fatto grande. 150 ANNI

Le attuali celebrazioni dell’anniversario dell’Unità stanno confermando un carattere particolare e se si vuole bizzarro della nostra vita pubblica: tra i grandi Paesi europei siamo il solo la cui esistenza come Stato ha dato luogo tra i suoi stessi cittadini a forti, spesso radicali, dissensi interni. Che di fatto durano ancora oggi: praticamente su tutto, sui modi della nascita dello Stato stesso (assenza di una vera partecipazione popolare, assenza dei cattolici, «annessionismo» piemontese, eccetera), sull’inadeguatezza militare mostrata e dunque sulla dipendenza dall’aiuto straniero, sulla forma dello Stato (monarchia o repubblica, accentramento o federalismo). Continua a leggere

Dagli all’evasore

Massimo Gramellini – LA STAMPA 24 Gennaio 2012

Fra i pochi effetti positivi (Monti direbbe: «Non del tutto negativi») di questa crisi Fine di Mondo c’è il cambio di atteggiamento degli italiani nei confronti degli evasori. Fino a qualche tempo fa, intorno agli evasori luccicava ancora quell’alone di rispetto confinante con l’invidia che nel nostro Paese circonda sempre i furbi quando mettono in pratica le trasgressioni che gli altri osano soltanto immaginare. Rubare allo Stato non era percepito come un furto. Non più di quanto lo sia depredare l’accampamento nemico durante una guerra. L’evasore si ammantava di ideali libertari: il rifiuto di piegarsi al sopruso di un potere straniero. Quando c’è da dare e non da prendere, lo Stato in Italia non siamo mai noi, ma qualcun altro.

Poi è arrivata la crisi e abbiamo capito che le tasse non servono solo a finanziare le cricche corrotte e sprecone (Monti direbbe «non del tutto frugali») dei politici, ma anche a tenere in piedi la baracca. Che ogni euro evaso significa un servizio in meno negli ospedali e per la strada. E che quell’euro mancante, non potendo più gravare sul debito pubblico, d’ora in poi dovrà essere compensato da una nuova imposta. Così l’invidia si è trasformata in disprezzo e rabbia. Specie verso quegli evasori totali, ieri ne sono stati scoperti altri 7500, che non evadono per sopravvivere ma per continuare a spassarsela sulle spalle di chi non ce la fa più. A uno di questi eroi in disgrazia è stato sequestrato un cavallo da corsa, figlio di Varenne: ora trotta per lo Stato. Io avrei preferito veder trottare il proprietario in qualche lavoro socialmente utile.

 

La patria, bene o male

                                                         Presentazione

“La patria, bene o male” di Carlo Fruttero e Massimo Gramellini

Il romanzo “La partia, bene o male” di Carlo Fruttero e Massimo Gramellini ripercorre la storia italiana in 150 date per festeggiare i 150 anni dell’Unità d’Italia. Le date scelte dai due scrittori non sono soltanto quelle storiche, contenuti nei libri, ma anche date di eventi dal tono personale: storie di persone di cui è fatta l’Italia.

“La patria, bene o male”, infatti, non è un manuale storico  che esalta le vicende della gloriosa vita dell’Italia Unita, ma un ritratto degli italiani che hanno vissuto l’Italia dal 1861 ai giorni nostri. L’intento di Carlo Fruttero e Massimo Gramellini è quello di descrivivere, più che la storia italiana, la storia degli italiani, fatta di eventi drammatici, ironici e tragici.

Una raccolta di 150 racconti, uno per ogni anno dell’Unità, che riassumono attraverso i colori della cornaca nera, rosa e storica, i tratti fondamentali di un paese che, nonostante i podersi sviluppi avvenuti nell’arco di un secono e mezzo, si ritrova ad avere figure ricorrenti nella sua storia.

“La partia, bene o male” di Carlo Fruttero e Massimo Gramellini, è uno romanzo divertente, che raccoglie

 

la storia d’Italia e degli italiani, facendo ridere, sorriede e soprattutto

riflettere.

 

 

La bella Italia che non seduce gli italiani

Autore: Massimo Gramellini LA STAMPA 17 Gennaio 2013

E così, dopo aver visitato la Roma dei Papi e il mondo esoterico di Leonardo, nel nuovo thriller di Dan Brown si passeggia tra le strade di Firenze e le pagine infernali di Dante. Dan Brown non sarà un maestro di stile, ma è un’autorità indiscussa in materia di fatturato. Se ogni volta mette l’Italia sullo sfondo dei suoi polpettoni è perché sa che l’Italia fa vendere in tutto il mondo.

Non l’Italia di oggi, naturalmente, mediocre sobborgo d’Occidente come tanti altri. L’Italia del passato: le città d’arte del Rinascimento e l’Antica Roma. Gli unici due momenti della storia in cui siamo stati la locomotiva dell’umanità. E a questo punto, ossessiva, scatta la solita domanda: perché? Perché, se l’Italia fa vendere, a guadagnarci devono essere sempre gli altri? Perché i miti del passato italiano affascinano gli scrittori e i registi stranieri, ma non i nostri?

Al di là delle letture dantesche di Benigni, che sono un’eccezione magnifica ma non esportabile, perché l’Inferno ispira romanzi a Dan Brown e non a Sandro Veronesi (cito lui in quanto bravo e pure toscano), tantomeno al sottoscritto che al massimo potrebbe narrare le imprese di Pulici e Cavour? Perché i telefilm sui Borgia li fanno gli anglosassoni e non un pronipote di Machiavelli? Perché le gesta del Gladiatore sono state narrate da Ridley Scott e non dall’epico Tornatore? Persino lo scrittore-archeologo Valerio Massimo Manfredi, nonostante qualche incursione sporadica nella romanità, preferisce mettere al centro delle proprie saghe i greci Alessandro e Ulisse.

Se la tomba dell’eroe di Russell Crowe, scoperta tre anni fa lungo la Flaminia, si trasformerà in un’attrattiva turistica sarà per merito delle associazioni straniere che stanno raccogliendo i fondi necessari al restauro, nel disinteresse impotente del ministero della Cultura, che in Italia dovrebbe contare quanto quello del petrolio in Arabia Saudita, mentre l’opinione comune lo considera una poltrona di serie B.

Ma questo rifiuto pervicace di dare al mondo l’immagine dell’Italia che piace al mondo non riguarda solo gli artisti e i politici. Investe tutti noi. Un bravo psicanalista ci troverebbe materiale per i suoi studi. Sul lettino si dovrebbe sdraiare una nazione intera che si rifiuta orgogliosamente di essere come la vogliono gli altri e desidera invece con tutte le sue forze conformarsi al modello globale, condannandosi alla marginalità. Per quale ragione il passato che affascina e stimola la curiosità e l’ammirazione di turisti cinesi e best-selleristi americani ci risuona così pigro e indifferente? Perché rifiutiamo di essere il gigantesco museo a cielo aperto, arricchito da ristoranti e negozi a tema, che il mondo vorrebbe che fossimo? Forse è presbiopia esistenziale.

L’antica Roma e il Rinascimento, incanti da esplorare per chi vive al di là dell’Oceano, per noi che ci abitiamo in mezzo si riducono a scenari scontati: le piazze del Bernini sono garage e il Colosseo uno spartitraffico. O è la scuola che, facendone oggetto di studio anziché di svago, ci ha reso noioso ciò che dovrebbe essere glorioso. Ma forse la presbiopia e la scuola c’entrano relativamente: siamo noi che, per una sorta di imbarazzo difficile da spiegare, ci ostiniamo a fuggire dai cliché – sole, ruderi, arte e buona tavola – a cui il mondo vuole inchiodarci per poterci amare e invidiare.

L’Italia capitale universale della bellezza e del piacere è l’unico Paese che può scampare al destino periferico che attende, dopo duemila anni di protagonismo, la stanca Europa. Ma per farlo dovrebbe finalmente accettare di essere la memoria di se stessa. Serve una riconversione psicologica, premessa di quella industriale. Serve un sogno antico e grande, mentre qui si continua a parlare soltanto di spread.

 

La prevalenza dello Schettino

di Massimo Gramellini LA STAMPA 17 Gennaio 2012

C’erano voluti due mesi per ritornare all’onor del mondo. Due mesi di loden e manovre, di noia e ricevute fiscali. Due mesi per nascondere i politici di lungo corso sotto il tappeto o in un resort delle Maldive. Due mesi per far dimenticare il peggio di noi: la faciloneria, la presunzione, la fuga dalle responsabilità. E invece con un solo colpo di timone il comandante Schettino ha mandato a picco, assieme alla sua nave, l’immagine internazionale che l’Italia si stava ricostruendo a fatica. Siamo di nuovo lo zimbello degli altri, il luogo comune servito caldo nei telegiornali americani, il pretesto per un litigio fra due politici francesi (francesi!), uno dei quali ieri accusava l’altro di essere «come quei comandanti che sfiorano troppo la costa e mandano la loro barca contro gli scogli».

Mi auguro che non tutto quello che si dice di Schettino sia vero: anche i capri espiatori hanno diritto a uno sconto. Ma se fosse vero solo la metà, saremmo comunque in presenza di un tipo italiano che non possiamo far finta di non conoscere. Più pieno che sicuro di sé. Senza consapevolezza dei doveri connessi al proprio ruolo. Uno che compie delle sciocchezze per il puro gusto della bravata e poi cerca di nasconderle ripetendo come un mantra «tutto bene, nessun problema» persino quando la nave sta affondando, tranne essere magari il primo a scappare, lasciando a mollo coloro che si erano fidati di lui. Mi guardo attorno, e un po’ anche allo specchio, e ogni tanto lo vedo. Parafrasando Giorgio Gaber, non mi preoccupa lo Schettino in sé, mi preoccupa lo Schettino in me.

 

Il pensiero politico e civile di Francesco Guicciardini.

Riproponiamo il pensiero politico e civile di uno dei più grandi esegeti dell'”agire civile” degli Italiani. Francesco Guicciardini scrisse 221 aforismi – dati alle stampe definitivamente nell’anno 1530 – nei quali sintetizzò in forma “icastica” il suo pensiero in ordine alle vicende che portarono l’Italia alla perdita della propria indipendenza e, più in generale, espose una “filosofia dell’agire civile” che – al di là del giudizio che di essa si può dare – riceve da allora molti “muti” consensi da parte dei più. Intrise di pessimismo etico e morale, soprattuto sui “moventi” che inducono l’agire civile degli uomini, le teorie del Guicciardini non furono amate da Francesco De Sanctis il quale ultimo le descrisse da par suo, nel contesto della sua Storia della Letteratura Italiana.

 Presentiamo, sia la sintesi del De Sanctis (vedi qui sotto), che il testo integrale dei “Ricordi politici e civili” del Guicciardini ( clicca qui).

 dalla Storia della letteratura italiana di F. De Sanctis: Francesco Guicciardini.

La sindrome dei balcani

Editoriale di Sergio Romano sul Corriere della Sera del 13 marzo 2013

 

PARTITI, ISTITUZIONI: TUTTI CONTRO TUTTI

La sindrome dei Balcani

Per alcuni anni il partito di maggioranza relativa in Svizzera (Unione democratica di centro, fondata dall’industriale Christoph Blocher) è stato una forza politica intollerante, xenofoba, attraversata da umori razzisti e pregiudizialmente ostile a qualsiasi forma di integrazione europea. Le sue posizioni non erano condivise dagli altri maggiori partiti democratici (cristiano-sociali, socialisti, liberali) ma non hanno impedito che fra questi fratelli nemici si stabilisse un pragmatico rapporto di collaborazione nell’interesse del Paese. È accaduto perché tutti, anche Blocher, hanno capito che un dissidio interno, portato alle sue estreme conseguenze, avrebbe impedito alla Confederazione di affrontare e superare le grandi crisi economiche e finanziarie degli ultimi anni. Il risultato della convivenza fra i maggiori partiti svizzeri, nell’ambito di una grande coalizione, è un Paese prospero in cui le grandi banche hanno risanato i propri conti, la maggiore preoccupazione della Banca centrale è quella di evitare che l’eccessivo apprezzamento della moneta nazionale pregiudichi le esportazioni, il tasso di disoccupazione è al 3,1%, i cittadini elettori dicono no alla riduzione delle ore di lavoro e sì a quella dei bonus con cui i banchieri gratificano se stessi.

L’Italia ha imboccato la strada opposta. I partiti e persino le istituzioni (fra cui la stessa magistratura) non hanno altro orizzonte fuorché quello della propria sopravvivenza, della propria identità, della difesa delle proprie prerogative. Conosciamo bene i nostri mali: spese inutili, un Parlamento pletorico, una classe politica avida, una burocrazia e una giustizia paralizzanti, un gettito fiscale che non giova alla crescita perché serve in buona parte a pagare i debiti del Paese. Ma ogniqualvolta un governo cerca di prendere il toro per le corna, quasi tutti vedono nelle riforme soltanto il danno che potrebbe derivarne per la famiglia politica o sindacale a cui appartengono. Come nella penisola balcanica all’inizio degli anni Novanta, il desiderio di sfogare la propria rabbia e punire il «nemico» prevale su qualsiasi altra riflessione.

Per un breve periodo (i primi mesi del governo Monti) abbiamo sperato che le maggiori forze politiche avrebbero assicurato all’esecutivo la loro collaborazione. Più recentemente abbiamo sperato che il risultato inconcludente delle elezioni avrebbe costretto i maggiori partiti (quelli che hanno grosso modo programmi convergenti) ad accantonare i loro dissensi. Avrebbero dato al Paese un governo e al Movimento 5 Stelle lo spettacolo di una classe dirigente ancora capace di un soprassalto di orgoglio e buon senso. È accaduto esattamente il contrario. Nessuno è disposto a sacrificare qualcosa o a fare un passo indietro. Come nei Balcani, durante il decennio degli anni Novanta, si è perduto, a quanto sembra, il sentimento di un destino comune. I primi ad accorgersene saranno i partner europei e, naturalmente, i mercati. Quando constateranno che l’Italia balcanizzata è soltanto un campo di battaglia fra corporazioni economiche e istituzionali, tutti smetteranno di attendere il suo risanamento e cominceranno a scommettere sul suo collasso. Il costo del debito aumenterà e tutto diventerà ancora più difficile. Beninteso, quel giorno le battaglie corporative che hanno paralizzato il Paese avranno perduto qualsiasi significato: non vi sarà più niente da spartire.

Sergio Romano13 marzo 2013 | 7:44

 

Schiavone- Galli della Loggia: Il ’68 e la modernizzazione dell’Italia

Dal sito del CORRIERE DELLA SERA del 5 settembre 2011

Anticipiamo un brano del libro «Pensare l’Italia», in uscita domani da Einaudi, nel quale Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone s’interrogano sul passato e sulle prospettive del nostro Paese. Un dialogo vivace, a volte polemico, percorso da forti preoccupazioni per il rapporto difficile che gli italiani intrattengono con la modernità e per la permanenza di un «carattere nazionale» refrattario al riconoscimento dell’interesse generale. Spesso i giudizi divergono, come nei passi qui riportati: per esempio, mentre Schiavone è convinto che i rivolgimenti degli anni Sessanta abbiano avuto sull’Italia effetti di reale progresso civile, Galli della Loggia ritiene che quelle novità siano state recepite in modo superficiale e non abbiano inciso sui vizi antichi e profondi della nostra società. In generale Schiavone guarda di più alla dimensione sociale dei fenomeni e mostra una maggiore fiducia nell’integrazione europea, mentre per Galli della Loggia i pericoli disgregativi che affliggono il Paese potranno essere scongiurati solo colmando l’attuale grave deficit di senso dello Stato.

ALDO SCHIAVONE – L’irresistibile pluralismo dell’Italia rese possibile il Rinascimento e insieme uno sviluppo economico senza precedenti, ma non consentì la formazione di una massa critica in grado di congiungere quantità e spazi indispensabili alla nascita di un grande Stato territoriale, come quelli che si stavano costruendo in Europa. Né avemmo il tempo di sperimentare soluzioni diverse e più adatte a noi: il «sistema Italia» messo in piedi nel corso del Quattrocento si rivelò alla prova dei fatti politicamente fragilissimo, e fu spazzato via. Questa contraddizione – primi, ma indifesi – ci è restata da allora conficcata dentro. La tensione fra comunità locali e identità italiana, che avrebbe potuto risolversi nell’invenzione di una via originale all’integrazione, si esaurì invece in un accentuarsi delle lacerazioni. La Controriforma fu la guida del nostro declino. Diventammo il terreno privilegiato di una grande offensiva cattolica, invece di essere il laboratorio di una nuova statualità (avremmo potuto pur diventarlo, in termini culturali). Mettemmo definitivamente la parrocchia al posto dello Stato: e questo stabilì rapporti di forza dal cui raggio non siamo più venuti fuori, nemmeno in centocinquant’anni di storia unitaria.

La geografia civile e mentale del Rinascimento uscì stravolta dall’impatto con il nuovo disciplinamento, che si combinava al dissesto politico del Paese. Esso contribuì a cristallizzare quello che possiamo chiamare il carattere moderno degli italiani, la qualità di un mondo interiore di lunga durata. Se ne distinguono perfettamente i tratti: il prevalere, in ogni giudizio, dell’intenzione sulla responsabilità; la sensibilità per l’ombra, per l’oscurità irrimediabile della materia umana; la propensione rassicurante per la continuità, e l’orrore del salto e del cambiamento; una percezione ambivalente del potere: cui conviene adattarsi, perché nell’assecondarlo c’è comunque un principio di salvezza, ma ritagliandosi una propria personale misura di disobbedienza, combinata con l’ostilità verso le regole generali e l’uniformità delle leggi; la percezione dello Stato come di un possibile nemico, del quale diffidare sempre; la duttilità di piegarsi, per non spezzarsi mai; una rappresentazione autosufficiente e molecolare di sé, chiusa nella dimensione privata o al massimo nella cerchia familiare.

È stata la Repubblica dei partiti e poi la nostra (tardiva) rivoluzione industriale degli anni Sessanta del Novecento, culminata nel ’68 degli operai, degli studenti, e insieme dei movimenti femminili che hanno cambiato radicalmente il vissuto di milioni di donne, a spezzare questa lunga continuità, e a far entrare la nostra storia sociale e civile in un’altra orbita, a gettare le basi di un individualismo acquisitivo consumista e permissivo, più in linea con quanto accadeva nel resto dell’Occidente. Ma il maggiore benessere e la più ampia libertà riproponevano l’antica scissione fra ricchezza e potenza, e l’antica subordinazione delle forme alla vita. Consumatori, non (ancora) cittadini; creativi, senza disciplina; audaci, senza struttura civile.

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ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA – Permettimi di dubitare radicalmente circa l’effetto di cesura epocale sul piano non del costume ma del carattere, che tu attribuisci al ’68 e in genere alla modernizzazione degli anni Sessanta-Settanta. Una frattura che secondo te metterebbe fine al fondo pre-moderno dell’individualismo italiano. Non credo proprio che le cose stiano così. C’è stato sì, allora, un grande mutamento, per esempio, nei costumi sessuali, dunque nei rapporti tra i sessi; e poi ancora nelle relazioni tra le diverse età, tra padri e figli, per finire con la diffusione dappertutto di un’atmosfera di pervadente informalità.

Ma sono convinto che tutto ciò non è arrivato in alcun modo a intaccare quel carattere anarchico-clanistico dell’individualismo italiano di cui abbiamo parlato prima. Anzi mi pare che la forza secolare di tale carattere si sia mostrata capace di riassorbire, in gran parte, la rottura sessantottesca modernizzatrice, rendendola alla fine qualche cosa di abbastanza superficiale. Nella sua sostanza profonda, infatti, la società italiana è rimasta quella che era prima del ’68: oligarchica, gerarchica, dove il rango conta sempre più del merito, conformista, nemica dell’individualismo. Esattamente com’era prima della frattura modernizzatrice. La quale ha avuto tra i principali effetti quello di diffondere nel Paese un grado elevatissimo di edonismo, che non ha riscontro in altri paesi. Alla fin fine la grande modernizzazione mi sembra essersi ridotta al puro e semplice abbandono – e lasciami aggiungere superficialissimo – dei principî dell’etica tradizionale di stampo cattolico. Devo dire la verità: non mi sembra una grande conquista.

Dall’altra parte, la modernizzazione ha rafforzato paradossalmente l’antico vincolo corporativo e di gruppo. È stato proprio dopo la «rottura moderna» che questo carattere decisivo della tradizione italiana, invece di diminuire, è molto aumentato. Come mi sembra molto aumentato il nostro familismo congenito, grazie al quale oggi i figli restano a vivere in famiglia ancora più a lungo di prima. È questa la modernizzazione sessantottesca del costume?

SCHIAVONE – L’antropologia italiana non è però soltanto negativa. Nel nostro carattere vi sono di sicuro gli esiti di molti traumi, ma si sono depositate anche attitudini preziose, che ci hanno tenuto in piedi, pur in momenti di difficoltà estrema. Ho già detto dell’esuberanza dei nostri animal spirits – predisposizioni mentali e pulsioni emotive educate non meno dalle avversità che dalla lunga abitudine a dover inventare per cavarsela. Della nostra propensione all’universalismo e alla connessione fra saperi diversi. Della capacità di ripartire ogni volta daccapo, e di trovare spesso soluzioni originali, adeguate alle forze e agli interessi in campo. Una tendenza adattativa che sa diventare autentica plasticità intellettuale, sociale e organizzativa, duttilità di fronte all’imprevisto, disponibilità ad accogliere dentro di sé la molteplicità del mondo, e insieme valutazione realistica dei dati di fatto. Certo, poi accanto a tutto ciò vi sono le zone d’ombra, o i veri e propri buchi neri. Ma la dialettica fra questi pieni e questi vuoti non presenta sempre un saldo negativo e nemmeno a somma zero. Sarei anzi portato a dire che, nonostante un pessimo inizio del nuovo secolo, e nonostante tutti gli obiettivi rischi di declino che abbiamo ricordato e che rendono oscuro e incerto il nostro presente, gli italiani agli inizi del nuovo millennio siano, alla fine dei conti, migliori dei loro antenati di un secolo fa: e non solo per l’aumento nei livelli di istruzione; per la crescita vertiginosa nelle possibilità di informazione, di conoscenza e di confronto; per un rapporto più equilibrato fra i sessi, le classi e le generazioni. Credo ci sia qualcosa d’altro. Ed è che, malgrado tutte le difficoltà, le tortuosità e i passi indietro che in tante occasioni noi stessi ci siamo inflitti, nella trama antropologica degli italiani ci sono oggi, rispetto a un secolo fa, un condizionamento alla democrazia e un diffuso e introiettato vissuto dell’eguaglianza molto maggiori rispetto a ogni altra epoca della nostra storia. Se è così, non dobbiamo disperare.

Un’immagine di Lorenzo il Magnifico (1449-1492)

GALLI DELLA LOGGIA – La capacità di adattamento di cui parli è sicuramente un dato reale del nostro panorama antropologico, ma sarei più cauto di te nel dargli un valore univocamente positivo. A suo modo, quella capacità di adattamento è anche la propensione al trasformismo, il tratto gaglioffo che sappiamo del nostro carattere nazionale.

Al centro del quale ci sono senz’altro gli animal spirits che tu evocavi. Mi chiedo però se la modernizzazione italiana sia riuscita davvero a farne un valore. Mi sento di dubitarne, soprattutto perché credo che quegli animal spirits in realtà non siano organizzabili. Nel momento in cui lo fossero cesserebbero di essere tali, infatti. Perderebbero la loro plasticità originaria. In ciò io vedo qualcosa di drammatico. Cioè il fatto che se noi italiani vogliamo restare noi stessi, nel senso di restare fedeli a una nostra specifica originalità antropologica, siamo per ciò stesso costretti a un rapporto ambiguo, comunque di non identificazione, con la modernità. Esito a dirlo in questa forma così recisa, ma mi viene da pensare che la modernità sia qualche cosa che al suo fondo si oppone in modo sottile ma reale e profondo al carattere italiano.

Quella che tu hai definito la plasticità rappresenta di sicuro un dato storico di estrema importanza, perché sta forse proprio in essa la ragione principale per cui l’Italia non è stata mai cancellata dalla scena del mondo, perché alla fine gli italiani riescono sempre a ricostituire una qualche forma di presenza collettiva sulla scena del mondo. Probabilmente proprio perché in loro c’è una forma di vitalità estrema, che però fa a pugni con il disciplinamento, ingrediente inevitabile proprio della modernità dispiegata.

Da noi il principio di autorità in genere è culturalmente delegittimato in una maniera e in una misura altrove sconosciute. Tutto ciò ha lasciato in eredità nell’organismo del Paese uno squilibrio, un disordine interiore, che ancora non sono stati riassorbiti. Di questo carattere scompaginante e destabilizzante, non componibile in alcun nuovo ordine ma alla fine solo corrosivo di ogni possibile ordine, è una prova, a me sembra, il fatto che non siamo riusciti a inventare nessun tratto effettivo ed esportabile di modernità italiana. Non c’è alcun tratto specifico di modernità che possa dirsi italiano. All’opposto, per la nostra società diventare moderna ha voluto dire talvolta andare incontro a un vero e proprio processo di snazionalizzazione.

SCHIAVONE – Non saprei dire se davvero non esista alcun tratto di modernità che possa dirsi propriamente «italiano». La nostra socialità urbana, la qualità complessiva della vita collettiva in molte città, soprattutto del Centro-Nord, credo abbia pochi eguali al mondo, e mi sembra un aspetto specificamente italiano della modernità occidentale, una nostra invenzione che molti cercano di riprodurre. Vi è di sicuro uno «stile italiano» nel dar forma alle cose intorno a noi, una maniera di percepire e disegnare la spazialità che ci circonda, una sensibilità alla bellezza e alla grazia, una misura nel rapporto tra vita e pensiero che sono diventati, in tutto il mondo, un’impronta incancellabile del nostro tempo.

Paradossalmente, è proprio la politica – nonostante tutti gli esperimenti che abbiamo tentati con essa nel Novecento – il terreno dove siamo rimasti più indietro, e non facciamo che imitare. E siamo indietro anche per quanto riguarda il nostro spirito pubblico, l’autocostruzione di noi stessi come cittadini; potremmo dire: il compimento dell’individualismo nella cittadinanza. Su questo punto, c’è ancora molto da fare. Come c’è molto da lavorare sulla qualità e la tenuta dei nostri legami sociali. In questo senso, possiamo dire che è mancata la funzione «pedagogica» delle classi dirigenti (fin quando ha resistito, vi è stata però una funzione pedagogica della classe operaia).

GALLI DELLA LOGGIA – In un modo che alle mie orecchie suona molto politico, tu tendi sempre a prospettare le cose in termini diciamo così ottimistico-evolutivi – «siamo rimasti più indietro», «c’è ancora molto da lavorare». Ma così ti impedisci di vedere, secondo me, certi nuclei profondi e immodificabili delle cose. Quanto alla funzione pedagogica svolta o non svolta dalle classi dirigenti italiane, io credo che si debba pensare, invece, all’assenza in genere di disciplinamento sociale, frutto dell’assenza storica di forti poteri politico-statali. A mio giudizio è essenziale: la mancanza nella vicenda italiana della dimensione dell’assolutismo. Tranne il caso di Venezia e della monarchia sabauda, nella penisola abbiamo avuto per moltissimo tempo poteri deboli, piccoli, lontani, privi di grandi ambizioni geopolitiche, quindi non bisognosi di risorse finanziarie e umane da estrarre dai propri stati, e anche perciò inclini a un certo qual complessivo lassismo nei confronti dei propri sudditi. Poteri per giunta alle prese con una controparte religiosa costitutivamente antagonista, schierata a difesa in senso lato delle masse popolari di cui si considerava la naturale tutrice. Per tutto questo insieme di fattori queste masse hanno potuto sottrarsi per lungo tempo a quella penetrante azione normatrice, a quella serie di obblighi indeclinabili e a quella vincolante obbligazione politica verso lo Stato che sono all’origine del senso civico diffuso in tanta parte dell’Europa. Assai più che lo Stato a esercitare il proprio potere sulle masse popolari italiane, molto spesso sotto forma di angheria, fu il nobile, il proprietario terriero dalle caratteristiche più o meno feudali in molte parti della penisola.

È da notare quindi che la stessa assenza di disciplinamento sopra detta a proposito delle classi popolari è valsa anche per le classi dirigenti italiane. Le quali, a causa sempre dell’assenza di un forte potere statale, hanno potuto prosperare in un sostanziale stato di anarchismo, cioè di esercizio arbitrario delle proprie prerogative e del proprio ruolo sociale.