L’articolo di Lorenzo Mania su “la Repubblica Affari e finanza” dello scorso 5 ottobre 2015 fotografa con buona fedeltà la situazione delle relazioni e dei rapporti di forza attuali nel pubblico impiego.
Pubblico impiego: meno sindacati al tavolo
L’articolo di Lorenzo Mania su “la Repubblica Affari e finanza” dello scorso 5 ottobre 2015 fotografa con buona fedeltà la situazione delle relazioni e dei rapporti di forza attuali nel pubblico impiego.
Pubblico impiego: meno sindacati al tavolo
Forse la gestione del Comune di Roma – non solo quella recente – costituisce la “summa” di tutto ciò che un’amministrazione pubblica non deve essere. Riportiamo, per memoria futura, i “fondi” più caustici e pungenti – di Francesco Merlo e di Giuliano Ferrara – in occasione delle dimissioni del Sindaco Marino, nonché una lettera dell’anno 2002 inviata al chirurgo Ignazio Marino dall’Università di Pittsburgh in seguito ad altre sue dimissioni.
Merlo – La sporcizia del candore, da “La Repubblica” del 9 ott 2015
Ferrara: Quelli che hanno votato Marino, da “Il Foglio” del 9 ott 2015
Dimissioni Marino Ospedale Pittsburgh 2002
L’appellativo di “Dracula” dipinto sul volto di Vincenzo Visco appare ingeneroso: per il passato, nel quale si possono ascrivergli interventi di razionalizzazione del sistema fiscale italiano, e per il presente nel quale dal suo sito http://www.nens.it/ e dalle pagine dei giornali avanza idee che meriterebbero almeno un’attenta riflessione.
Riportiamo qui le sue osservazioni in ordine all’evasione IVA nel nostro Paese (un terzo del gettito dovuto per circa 40 miliardi di euro), pubblicate sul Sole 24 ore di ieri 7 ottobre 2015: vi sono descritte le vicende parlamentari collegate alla proposta di “eliminare tutte le comunicazioni telematiche oggi esistenti e anche i registri dell’IVA, sostituendoli con l’obbligo per tutti i contribuenti dell’invio telematico al fisco dei dati delle fatture emesse rilevanti ai fini fiscali“. La proposta in questione è a sua volta collegata a un rapporto pubblicato dallo stesso Nens nello scorso anno 2014 – vedi qui il rapporto in questione – sull’intera tematica delle riscossioni IVA.
Vincenzo VISCO – SOLE 24 ore 7 ott 2015
Il presente ha un cuore antico. Capire lo stato dei rapporti fra politica e dirigenza nel nostro Paese significa anche ripercorrere le varie fasi delle sue negative vicissitudini. Ciò che emerge dalla narrazione di 150 di storia dall’Unità d’Italia è sintetizzato dall’abstract dello scritto di Guido Melis, pubblicato sulla Rivista “Scienza e politica” – n. 50 del 2014:
” In Italia una specifica legislazione sulla dirigenza amministrativa è stata tardiva e la sua retorica si è rivelata in contraddizione con la traduzione pratica. Il rapporto della dirigenza con la politica è stato caratterizzato o da un’eccessiva distanza o da una patologica prossimità oppure da indifferenza rispetto ai fini delle politiche che avrebbe dovuto in-terpretare. La dirigenza amministrativa si è così auto-esclusa dalle élite nazionali e non c’è stata mai una sua reale mobilitazione negli ambiti decisionali del Paese.”
Nel momento in cui il dibattito sulla condizione dell’Italia meridionale ritorna all’attenzione dei più – vedi qui Rapporto SVIMEZ 2015 sul Mezzogiorno d’Italia , continua a sfuggire all’attenzione della politica la circostanza fondamentale secondo cui l’efficienza della Pubblica Amministrazione è condizione primaria perché possa essere avviata una qualunque politica pubblica nazionale per la risoluzione dei mille problemi sociali ed economici che la metà del nostro Paese ancora incontra sul suo commino. In questa ottica, lo smantellamento in corso di FormezPA previsto dall’articolo 20 del DL n 90/2014 in Legge n 114/2014 – vedi – costituisce la peggiore risposta che si possa dare. Formez PA è – in termini di conoscenze, relazioni e processi di sviluppo – un punto di riferimento consolidato per centinaia di amministrazioni pubbliche.
Invitiamo pertanto tutti a firmare la petizione che chiede lo “STOP ALLA CHIUSURA DELLA SEDE DI NAPOLI DI FORMEZPA“
clicca qui per conoscere i termini della questione e per FIRMARE LA PETIZIONE.
Sul sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica (DIPE) – sono presenti informazioni di sintesi e grafici illustrativi sull’economia italiana ed europea, presentati utilizzando i dati pubblici di organismi ufficiali nazionali e internazionali (Istat-Eurostat, Banca d’Italia, OCSE, FMI) e associandoli alle previsioni economiche del Governo come contenute nel Documento di economia e finanza.
VEDI QUI AGGIORNAMENTO AL 25 SETTEMBRE 2015
La recente condanna penale di Franceso Mengozzi, ad di Alitalia dal 2001 al 2004 e di Giancarlo CIMOLI, Presidente e ad dal 2004 al 2008 – vedi qui – rispettivamente a 5 e 8 anni di reclusione e al risarcimento alle parti civili di 355 milioni di euro derivanti dal reato di bancarotta induce a qualche riflessione su una parte di storia industriale del nostro Paese.
Va ricordata, innanzi tutto, la natura giuridica “bifronte” che ha avuto Alitalia, la sua dirigenza e il suo personale fino al 2008, quando è fallita: azienda formalmente privata, ma pienamente in mano pubblica (azionista unico il MEF), una “partecipata” si dice oggi. Questa modalità di governance – che ebbe momenti di vera “gloria” nell’IRI di Alberto Beneduce e nei tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale – entrò in crisi profonda negli anni ’80, quando i vecchi “enti pubblici economici” che la componevano divennero terreno di caccia di vere e proprie scorribande politiche, nonché collettori di tangenti e di malaffare. Le privatizzazioni degli anni ’90 e la modifica della loro natura giudica in “aziende private” di proprietà dello Stato non mutò in molti casi la sostanza di queste storture: rimase nel management, nei sindacati, nel personale e, naturalmente, nei politici l’idea di fondo che le risorse dello Stato avrebbero comunque garantito la sopravvivenza dell’azienda, delle sue storture organizzative e dei suoi privilegi (vedi in questo senso l’illuminante ricostruzione di Alberto Statera su “La Repubblica” del 30 sett 2015 e un’altra completa ricostruzione dell’epoca sulla cattiva gestione pubblica – vedi qui). Con la proterva sicurezza di tutti i players all’epoca in campo che “oggi va bene così” e al domani ci avrebbe comunque pensato qualcun altro. Il risultato, a tutto il 2008 – anno del fallimento – fu un costo per l’erario di 13 miliardi di euro – fra capitalizzazioni e debiti ripianati – dall’anno 1989 in cui fu quotata in borsa fino al 2007, un deficit da ripianare a tutto il 2008 di 3 miliardi di Euro (sui quali la Procura ella Corte dei Conti – non a caso giudice patrimoniale e contabile delle società private finanziate dallo Stato – ha instaurato nel 2013 causa per danno erariale – vedi qui), 7000 esuberi su 20.000 dipendenti dell’epoca, tradottisi in spesa aggiuntiva per ammortizzatori sociali per circa 1,2 miliardi di euro (vedi articolo di Tito Boeri su La Repubblica.it del 2 gen 2009).
I fatti successivi sono noti: 1) nel 2008, rottura del patto con Air France KLM – già approvato dal cda – col quale quest’ultima si accollava tutti i debiti dell’azienda e prevedeva solo 1.300 esuberi attraverso un piano che non rinunciava alle rotte intercontinentali, come poi avvenuto, ma puntava a un’integrazione delle tre “case madri” su un programma di presenza globale su tutte le rotte internazionali; 2) difesa “dell’italianità” di Alitalia attraverso la costituzione di un’azienda privata – La CAI Alitalia – affidata a imprenditori privati “patrioti” guidati da Roberto Colannino,Giancarlo Elia Valori, Salvatore Ligresti, Francesco Bellavista Caltagirone, Emilio Riva, con acquisizione di tutte le risorse della vecchia Alitalia, che fu lasciata fallire (vedi su queste vicende gli articoli de La voce.info) ; 3) misero fallimento della vicenda CAI – vedi riepilogo nell’articolo di Oscar Giannino del 14 apr 2014 – conclusosi con la cessione nel 2014 del 49% della proprietà alla Ethiad, compagnia degli emirati arabi con sede ad Abu Dabhi. Con buona pace dell”italianità” sbandierata 5 anni prima.
Recitano in questo dramma trentennale troppe figure di dirigenti pubblico/privati di primo piano perché ciò non faccia sorgere seri dubbi sulla qualità complessiva di un’intera generazione di top manager ( come non ricordare i casi Parmalat, Cirio e la stessa FIAT, sull’orlo del fallimento prima dell’arrivo dall’italo-canadese Marchionne). Ne escono malissimo anche i sindacati, persi nella difesa dell’esistente, senza “se” e senza “ma”. Domina su tutto una politica miope, che punta su personaggi impresentabili (Giancarlo Cimoli, quando fu nominato a.d. Alitalia, era reduce da una pessima gestione delle Ferrovie dello Stato). Tuttavia, l’aspetto più significativo di questa, come di altre vicende consimili, ci pare il continuo colludere fra politici e manager di fiducia, con un incrocio di patti nascosti e di favori che tutto hanno garantito, fuorché la tutela dell’interesse generale del Paese. Ci pare necessario evidenziare questo aspetto in un frangente nel quale il “modello ideale” del manager pubblico viene proposto da troppi critici come fedele riproduzione del manager privato (vedi qui di Carlo Mochi Sismondi “Una dirigenza a rischio?”), legato al suo “capo” solo da legami fiduciari e portatore di sole “capacità manageriali“. Invece, proprio la storia di tanti manager “bifronte” pubblici/privati ci dovrebbe insegnare che un legame politica/dirigente basato sul solo rapporto fiduciario si traduce quasi sempre nelle aziende pubbliche (oppure private ma di proprietà pubblica) nell’affievolimento dei meccanismi di garanzia della tutela dell’interesse generale della collettività.
La riproposizione – su cui sempre insistiamo – del modello di una dirigenza di carriera come schema ineludibile di salvaguardia e garanzia degli interessi della collettività, tuttavia, non esime – ci pare- la dirigenza pubblica italiana da alcune severe autocritiche: esce vergine la dirigenza pubblica di carriera dalle tante brutte storie di quest’Italia della seconda Repubblica? Sicuramente no: anche a prescindere da singoli fatti eclatanti di malaPA emersi negli anni, il dato forte che emerge è che la dirigenza pubblica è stata in questi vent’anni assente e silente nel suo complesso rispetto agli eventi che si susseguivano, in ciò rinunciando a quel dovere di testimonianza, di critica e di propositività che attiene a un ceto dirigente che voglia qualificarsi come tale. La dirigenza pubblica non ha fatto sentire la sua voce, come uno dei ceti dirigenti del Paese. Forse i singoli si sono adagiati anch’essi sulla mera salvaguardia del personale e dell’esistente, senza ritenere necessaria e imprescindibile l’espressione comune di un pensiero su ciò che è giusto per il Paese e per la sua Pubblica Amministrazione. Forse in parecchi sono stati troppo distratti dalle proprie vicende personali e dai problemi del “giorno per giorno” per essere poi in grado di far sentire la propria voce in modo unitario come ceto dirigente. Questo ci pare il vero errore. E, nei fatti storici come nella vita, gli errori alla lunga si pagano sempre e in modo spesso salato.
Giuseppe Beato
Pubblichiamo il testo del Decreto del Ministro per la semplificazione e la Pubblica amministrazione del 14 settembre 2015, registrato dalla corte dei Conti, sui criteri per l’attuazione delle procedure di mobilità riservate al personale dipendente degli Enti pubblici di vasta area dichiarato in soprannumero (articolo 1, commi 423,424, e 425 della Legge n 190 del dic 2014).
dm_criteri_mobilita_14_settembre_2015
Sul numero de “L’Espresso” della scorsa settimana é comparso un articolo di Massimo Cacciari, che riproduciamo qui sotto, nel quale si fa una preciso e continuato richiamo ai canoni de “Il Principe” di Machiavelli (chissà, magari per vellicare l’orgoglio dell’altro fiorentino oggi al potere) e per sostenere che un “capo nuovo”, che voglia effettivamente costruire una sua leadership, non può affidarsi solo ai suoi uomini fedeli. E’ necessario che egli, coraggiosamente, selezioni “burocrazie intelligenti, motivate e relativamente autonome rispetto ai tempi e alle scadenze dell’azione politica“. “E’ l’equilibrio fra élite politica ed élite burocratica a decidere la qualità dello Stato”.
Il pensiero di Cacciari può essere facilmente accostato a quello di Giuseppe De Rita – vedi qui.
Massimo Cacciari- Se un leader ha paura di quelli bravi
Una carta inedita per Limes on line sulle frontiere calde delle migrazioni, con un focus sui profughi della Siria: approfondisci qui.
Abbiamo già dato conto lo scorso mese di luglio del Rapporto SVIMEZ sul Mezzogiorno d’Italia – vedi qui. Sono prevalsi in quei giorni i soliti e stagionati toni di lutto per il divario ancora esistente fra Nord e Sud Italia, conditi con un nuovo slogan “Nel corso della recessione economica, dal 2008 l’Italia meridionale è andata peggio della Grecia”. Continua a leggere
Marco Causi é professore di Economia politica all’Università di Roma tre e deputato del Partito democratico. Esperto di economia e bilanci, fu assessore per le politiche economiche, finanziarie e di bilancio nelle Giunta Veltroni del Comune di Roma (2001-2008) e partecipò in qualità di deputato alla Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale. Oggi, dopo un primo impegno nello scorso 2013 al Comune di Roma per l’elaborazione del piano di rientro del bilancio comunale – all’epoca fuori controllo – ricopre la carica di Vice-Sindaco di Roma, nominato da Ignazio Marino.
Si deve sostanzialmente a lui la predisposizione di quello che è stato chiamato il “piano di privatizzazione dell’AMA” contro il quale stanno caricando a testa bassa i sindacati aziendali. Noi presentiamo una descrizione di tale piano, pubblicata sul suo sito
Investire sul futuro industriale di AMA – clicca qui.
Come Associazione stimiamo Marco Causi, anche per il fatto di aver riproposto in Parlamento una legge di delega per l’attuazione del bilancio per missioni e programmi –vedi qui.
Ci paiono convincenti anche i suoi argomenti attuali che, analizzando il vuoto slogan “privatizzazione”, spiegano come la Giunta romana abbia recentemente varato un piano di investimenti impiantistici di 600 milioni che garantisca un aumento di produttività dell’azienda e una riduzione dei costi di circa 35 milioni entro il 2018 e un miglioramento della qualità del servizio da monitorare anche con indagini di customer satisfaction fra cittadini romani. L’ipotesi di “privatizzazione” consiste in un possibile “innesto” di servizi privatizzati – nelle grandi città del nord la percentuale di questi ultimi è del 30%, mentre a Roma é del 12% – che in qualche modo supportino con immissioni di know -how, competenze e tecnologie l’arretratezza tecnologica e industriale attuale dell’AMA. Dov’è lo scandalo? Si parte da una situazione di indubbia e insopportabile crisi di un servizio pubblico e si cerca di porvi rimedio attraverso un piano finanziato, incentrato su formule già positivamente sperimentate altrove. Unica perplessità nell’articolo sopra richiamato di Marco Causi sta in una proposizione: “Esiste la garanzia occupazionale”….e perché? la “garanzia occupazionale” deve esistere per un dirigente o un impiegato pubblico solo in presenza di comportamenti, produttività e qualità di servizio effettuati e valutati come accettabili. “Garantire” il posto a chi non rende o mantiene una bassa qualità del servizio nuoce, non solo alla comunità degli utenti di un servizio pubblico (già questo fattore può essere considerato esimente di tutti gli altri), ma anche al buon andamento dell’azienda pubblica, nella quale, in assenza di sanzioni, sono avviliti per primi quelle lavoratrici e quei lavoratori che si impegnano e sono orgogliosi di svolgere un servizio pubblico…mai incontrato in giro per Londra un giardiniere di Hide Park? Sembrano e sono dei nobili signori! Questo è il modello di un lavoratore pubblico.
Riprendiamo un articolo di Antonella Crescenzi, pubblicato sul sito www.cheliberta.it su un’iniziativa scarsamente valorizzata dalla stampa italiana: lo scorso 16 e 17 settembre 2015 la Cancelliera Angela Merkel, nella sua qualità di Presidente di turno del G7, ha promosso il “G7 Forum for dialoge with Women” – vedi qui il link all’articolo – che ha posto sul tavolo dei leader mondiali l’impegno a supportare tutte quelle iniziative che possono ridurre le barriere per la partecipazione economica delle donne e sospingere così la crescita. Un eco significativo delle iniziative in corso é ravvisabile anche nelle dichiarazioni della stessa Merkel che non manca di collegare in uno il problema dell’accoglienza ai profughi comunitari con la condizione delle donne arrivate in Europa: “Non isolatevi e imparate il tedesco” è la raccomandazione di una donna affinché altre donne non vivano l’esperienza dell’emarginazione e dell’irrilevanza – vedi qui.
Per parte nostra, insistiamo su un concetto già espresso: il percorso di crescita della condizione delle donne non passa solo attraverso l’evoluzione dei costumi e dei valori, ma anche attraverso concreti e visibili interventi dello Stato in favore della condizione della donna lavoratrice e madre. Tutto questo implica, dopo e insieme alle dichiarazioni di principio, l’attivazione di concrete politiche pubbliche da affidare alle pubbliche amministrazioni, visibili, comprensibili e verificabili dai cittadini tutti. Sennò tutto il resto rimane fuffa o materiale buono solo per discussioni conviviali.
Senza alcuna volontà di prendere posizione nella bagarre in corso in seguito allo sciopero del personale di vigilanza al Colosseo e agli altri grandi siti archeologici romani, pubblichiamo due riferimenti utili per una lettura informata di ciò che accade, non solo in Italia: il testo della legge n 146 del giugno 1990 (vedi qui su NORMATTIVA) sul diritto sciopero nei servizi pubblici essenziali e un articolo di stampa sullo sciopero ad oltranza tuttora in corso presso la National Gallery di Londra – vedi qui.
Un convegno e le riflessioni che ne scaturiscono non possono certo mutare da soli le sorti della pubblica amministrazione italiana. Tuttavia, quando gli ospiti sono acuti pensatori, è garantito un risultato di crescita delle buone idee e un chiarimento comune per chi ragiona sui nodi di un problema irrisolto: potrebbe essere questa la sintesi dell’incontro organizzato dalla nostra Associazione “Nuova Etica Pubblica” con Guido Melis, uno dei massimi storici della pubblica amministrazione del nostro Paese, nella splendida sala parrocchiale di S. Maria degli Angeli a Roma lo scorso 16 settembre 2015.
Vedi qui gli interventi al convegno.
INTERVENTI AL CONVEGNO PER LA PRESENTAZIONE DEL TESTO DI GUIDO MELIS
Alla presenza delle Ministre Marianna Madia e Beatrice Lorenzin é stato inaugurato ufficialmente ieri 19 settembre 2015 il nuovo sito web dell’Associazione “Se non ora quando – Libere” – http://www.cheliberta.it – che presenta una serie di “firme al femminile” (vedi qui le firme) e si occupa della realtà dei nostri tempi dal punto di vista “donna”. Insieme al prestigio goduto da molte sue componenti, colpisce in particolare l’iniziativa che l’Associazione ha collegato all’inaugurazione del sito, riguardante la questione della maternità nel nostro tempo e denominata “La libertà di essere madri” (vedi sulla questione il fondo di Cristina Comencini pubblicato su La Repubblica dello scorso 8 settembre – clicca qui ). Il “coraggio di essere donna” implica anche la libertà di lavorare e di procreare: invece, nella società (italiana in particolare, aggiungiamo noi) attuale, la stragrande maggioranza delle donne che sceglie di percorrere una piena vita professionale “è amputata di una parte fondamentale della libertà, quella di lavorare e procreare“.
Accettando l’invito che fa a tutti l’Associazione di essere solidali e partecipativi nell’ascolto, nella discussione e nelle proposte, noi di Nuova Etica Pubblica non possiamo che rivolgere la nostra attenzione al collegamento che c’è fra la condizione civile e sociale della donna e le azioni che pone in campo lo Stato e la pubblica amministrazione per tutelare tale condizione. La valutazione immediata su questo tema è quella dell’assoluta deficienza dell’intervento pubblico. Deficienza che colpisce aspetti sia concreti che normativi della maternità (e della paternità): la fruibilità di asili nido e di dopo scuola vicini ai luoghi di lavoro, il sistema dei trasporti nelle grandi metropoli, la precarietà dei contratti di lavoro che penalizza le donne che desiderano essere madri, la carenza di una normativa di supporto alla condizione genitoriale negli uffici pubblici e privati. Segnaliamo, in tal senso, una battaglia che può essere intrapresa da subito per migliorare la situazione esistente: la recentissima Legge n. 124 dell’agosto 2015 di “Riforma delle pubbliche amministrazioni” reca all’articolo 14 una serie di misure di “promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche” che prevedono di “stipulare convenzioni con asili nido e scuole d’infanzia e a organizzare….servizi di supporto alla genitorialità, aperti furente i periodi di chiusura scolastica ” nonché “regole inerenti l’organizzazione del lavoro finalizzate a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti“. Queste previsioni di legge provocano due riflessioni immediate: la prima è quella che tali disposizioni dovrebbero essere estese a tutto il mondo del lavoro – non solo quello pubblico – a motivo degli evidenti benefici di carattere generale che il sistema Paese riceverebbe dalla tutela della maternità delle donne lavoratrici; la seconda questione è quella dell’effettiva attuazione della previsione di legge, visti i frequenti, ripetuti e mortificanti precedenti di norme che si sono limitate alla pura declamazione di princìpi e non hanno mai ricevuto attuazione concreta. Invece, l’effettiva attuazione dei “bei principi” della Legge 124 costituirebbe un grandissimo passo avanti sulla strada della libertà di essere madri (e padri) della quale molti nostri figli sono oggi privati. Chissà se la Ministra Madia, madrina di questa legge, potrà tentare di smentire questi dubbi…..
I nostri lettori sanno che sovente ci allontaniamo dai temi specifici della pubblica amministrazione per occuparci di “cosa pensano gli Italiani degli Italiani”…..in effetti si parla di questioni sottilmente affini, perché generalmente dalla capacità di coesione di una nazione nascono amministrazioni pubbliche forti ed efficienti. Proseguiamo qui nella carrellata sui “giudizi su sé stessi”, richiamando l’ultima fatica editoriale di Giampaolo Pansa, uno dei protagonisti della nostra carta stampata, che da almeno 10 anni ha deciso di farsi beffe del “politically correct” preferendo la strada impervia, ma feconda, del “pensiero controcorrente” e della provocazione intellettuale. Con “Il sangue dei vinti” ha cercato di far traballere – “da ex di sinistra” – il mito della Resistenza (o meglio, il mito della Resistenza per quella parte di italiani – forse neanche maggioritaria – che questo mito ha sempre coltivato!!!). Con “l’Italiaccia senza pace” Pansa attacca un altro mito: quello del secondo dopoguerra come “epoca d’oro” di rinascita della democrazia e di slancio della società italiana. Tutto falso per Pansa: attraverso il filo conduttore della storia di una famiglia ebrea che cerca di scoprire il segreto della scomparsa del proprio padre, tradito e denunciato alla Gestapo da persone a lui vicine, e poi deportato ad Auschwitz, egli descrive l’ambiente di una provincia piemontese negli anni 1943-1949, delineando un affresco politico dominato da spietate lotte di parte, in cui “De Gasperi incontrò il ministro degli Esteri francese, Georges Bidault, e gli presentò una richiesta che da sola testimoniava l’ asprezza dello scontro. E ottenne che, in caso di sconfitta della Dc, la Francia avrebbe accolto come rifugiati politici tutti i dirigenti del suo partito, famiglie comprese”….ma lasciamo descrivere proprio a Giampaolo Pansa, perché l’Italia è un’Italiaccia nella prefazione del volume pubblicata dal quotidiano “il Giornale” dello scorso 10 settembre 2015 e ripresa dal sito Dagospia.
Per parte nostra, osserviamo con interessata curiosità il paralleo che Pansa traccia fra l’Italiaccia del ’46 e l‘Italiaccia di oggi, con un’aggravante ci pare: quello era un Paese distrutto e umiliato dalla guerra e, soprattutto, alla fine fu capace di fare le scelte giuste. Quello di adesso, invece, è un Paese forte economicamente, in grado di reggere qualunque sfida dal punto di vista delle intelligenze, della reattività costruttiva e della capacità di intraprendere, ma inaccettabilmente appesantito da un’amministrazione pubblica che dall’Unità non è mai stata “promotrice di sviluppo” ed è oggi incapace di fornire quelle infrastrutture di base (scuola, ricerca, trasporti, giustizia efficiente, fisco, sistema delle licenze pubbliche) che consentono agli altri Paesi di investire sulle proprie capacità e talenti. Colpa dei burocrati? Anche. Colpa dei politici? Sicuramente…Ma non è pure in ballo proprio quello “spirito” che Pansa qualifica come “l’Italiaccia” e che noi potremmo tradurre in “individualismo”, “insofferenza alle regole”, “corporativismo radicato nelle menti di tutti”, “egoismo sociale”, perdita di quello “spirito della comunità” e “misericordia”, alla quale ci richiama sempre Papa Francesco? Varrebbe la pena di riflettere con serenità su questo.
Gaimpaolo Pansa – Prefazione del libro “Italiaccia senza pace”