Chi paga il welfare e le statistiche della povertà

Le riflessioni che seguono possono forse sembrare “provocazioni”, ma il confronto fra i dati relativi alla denuncia dei redditi e quelli ISTAT sulla povertà si presta a conclusioni inaspettate, ma non inverosimili.  1a domanda: chi (nel senso dei percettori di reddito che “pagano le tasse”)  sostiene in misura preponderante il finanziamento del welfare? 2a domanda: è poi cosi’ vero che in Italia la percentuale di poveri o a rischio di poverta’ è del 25% (venticinque per cento) della popolazione residente? Analizzando e incrociando i dati dell’Agenzia delle Entrate e dell’Istituto di statistica si può con ragionevole certezza pervenire a conclusioni diverse rispetto a una certa  comoda narrazione.

Premettiamo che una parte cospicua delle informazioni che seguono provengono da una stimolante ricerca sulle dichiarazioni dei redditi per l’anno 2020 (vedi qui) condotta dal centro studi “Itinerari Previdenziali” diretto dal prof. Alberto Brambilla. Dall’altra parte si e’ attinto ai report emessi periodicamente dall’ISTAT in ordine alla situazione della povertà (“assoluta” e “relativa”) e al rischio di povertà ed esclusione sociale nel nostro Paese. Il raffronto fra i due ordini d’informazioni e’ nostro.

Innanzitutto alcuni numeri attinti dallo studio citato e sintetizzati con le slide che si presentano qui sotto. Su una popolazione di poco inferiore ai 60 milioni di residenti (59.132.529 nell’anno 2021, non italiani compresi), la metà di questi non versa una lira di tasse (infatti, i versanti sono 30.327.38). E’ vero che circa 10 milioni di residenti hanno meno di 20 anni d’eta’ (controlla qui), ma gli altri 20 milioni che fine hanno fatto? E’ d’uso qui in Italia verificare, come in altri Paesi, di cosa vivono i cittadini ultra trentacinquenni che non effettuano dichiarazione dei redditi?

La realtà più significativa che emerge –  che il finanziamento del Welfare nazionale è rimesso alla metà dei residenti in Italia – va confrontata con i dati relativi alle prestazioni sociali che con le imposte vengono finanziate: fra queste, sul SOLO servizio sanitario nazionale – a tacere quindi del welfare erogato dall’INPS e del welfare erogato dai Comuni – lo studio di “Itinerari previdenziali” specifica che, dividendo il costo totale della sanità’ (122,721 miliardi di euro nell’anno 2020) per la popolazione  emerge che la spesa pro-capite  2.058 euro l’anno (vedi p. 68 del rapporto); ebbene la metà dei residenti gode di tale beneficio gratis e l’altra metà finanzia per tutti.

Ma le sorprese non finiscono qui. La ricerca ha operato una suddivisione dei contribuenti e dei relativi versamenti IRPEF in sezioni superiori ai 4 scaglioni tradizionali, per analizzare meglio il carico fiscale che grava su uno spettro più diversificato e specifico di  fasce di reddito. I risultati sono quelli presenti alla seguente tabella.

Il risultato eclatante manifestato dalla tabella può essere sintetizzato nel modo seguente: l’80% dei circa 41milioni dei concittadini che effettuano la denuncia l’IRPEF, (cui bisognerebbe aggiungere anche i circa 18 milioni di non dichiaranti), cioè le circa 32,5 milioni di persone  il cui reddito lordo è attestato entro i 29.000 euro all’anno (grosso modo, corrispondente al massimo a 1800 euro mensili netti) contribuiscono per il 28 % del totale dell’IRPEF (un pò più di un quarto)!  Chi versa, allora, il grosso delle imposte IRPEF? Semplice, sono i contribuenti che dichiarano redditi dai 29.000 euro in su, cioè  il 20 % di chi effettua la dichiarazione  (circa 8,5 milioni di persone) che paga il 72 % del totale IRPEF; quanto a dire che un quinto degli italiani versa quasi i tre quarti del totale dell’IRPEF.

Personale dipendente e pensionati sono loro i “protagonisti” dell’IRPEF , con l‘85% del totale delle dichiarazioni – p. 22 del rapporto di “Itinerari Previdenziali”).

Sul versante opposto della spesa sociale, invece, oltre al finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale sopra richiamato, c’è l’altra grande voce: le pensioni. Queste hanno in moltissimi casi una “natura bifecefala”: sono, cioè, in parte sono  finanziate dai contributi, ma in altra parte o per l’intero sono a carico della fiscalità generale. Sempre “Itinerari previdenziali” stima (vedi qui) il numero dei pensionati assistiti in 7 milioni sui 16 totali (circa il 43 %), come da tabella qui sotto, una quantità assolutamente generosa, composta di persone che hanno contribuito poco (integrazioni al minimo) o che sono comparse all’attenzione dell’INPS al compimento dei 65 anni di età (ad es. assegni sociali).

Va, a questo punto, sottolineata con favore la poderosa capacità redistributiva che genera il sistema economico/istituzionale del nostro Paese; questo è senz’altro un bene. Il nostro è il terzo paese al mondo per rapporto fra spesa sociale e PIL (p. 67 )  e ciò  ci deve inorgoglire! Salvo chiedersi, a stretto seguire, QUANTI concittadini che figurano nei “piani bassi” del reddito si troverebbero nei piani alti ove tutti i loro guadagni emergessero con evidenza. La domanda principale è:  fra quei milioni di “incapienti” che non pagano tasse quanti furbi si nascondono?

Può essere utile, per rispondere all’ultima domanda, confrontare le analisi dell’istituto di ricerche “Itinerari previdenziali” con i report ISTAT che analizzano e stimano  il lavoro sommerso. Dal report dello scorso 13 ottobre 2023 su “l’economia non osservata,” (vedi qui), l’Istat stima in poco meno di tre milioni nel 2020 le “unità di lavoro irregolari”: ciò significa che un pari numero di concittadini o non versa una lira di tasse oppure denuncia un minore importo.

Il dubbio amletico sull’affidabilità “sostanziale” delle statistiche ufficiali (i dati presentati sono evidentemente formalmente corretti, ma vanno interpretati e incrociati) aumenta con la lettura delle statistiche della povertà e del rischio di povertà, termine usato da ISTAT in significato non univoco, ma variabile:

  1. la povertà assoluta: si definisce così  la condizione di individui e/o famiglie il cui reddito sia al di sotto di importi mensili accertati come minimo vitale per una vita dignitosa. L’Istat effettua indagini periodiche a campione sulle spese per consumi delle famiglie; nel contesto di tale indagine enuclea – per ciascun capoluogo di provincia italiani – l’importo netto mensile al di sotto del quale una famiglia o un individuo va qualificato in condizione di povertà assoluta. Si parla di “soglie di povertà assoluta” (vedi qui la metodologia di calcolo) che rappresentano i valori rispetto ai quali si confronta la spesa per consumi di una famiglia al fine di classificarla assolutamente povera. Il report ISTAT dello scorso 25 ottobre 2023 (vedi qui in integrale) stima in 5,6 milioni di residenti in Italia (sui 59 milioni) il numero di individui in stato di povertà assoluta, dei quali 1,7 milioni (circa un terzo) sono stranieri. La percentuale dei poveri assoluti risulta, pertanto, al 9,7% dei residenti considerando anche gli stranieri e al 6,4% considerando le sole persone di cittadinanza italiana. Le soglie di povertà assoluta vengono più frequentemente toccate da famiglie con 3 o più figli, con abitazione in affitto e, comunque, in presenza di individui con scarsa istruzione.
  2. la poverta’ relativa è fissata, nello spettro complessivo dei redditi individuali dei residenti, in un livello di reddito mensile inferiore del 60% della linea mediana (quindi  non la media) nella distribuzione dei redditi, dal piu alto al piu basso; quindi, le variazioni dell’incidenza della povertà relativa, ossia della quota di individui poveri sul totale della popolazione, dipendono, non solo dall’eventuale peggioramento (o miglioramento) delle condizioni di vita delle famiglie prossime alla soglia di povertà, ma anche da variazioni del reddito medio nazionale. Correttamente, dal punto di vista del significato reale della locuzione, un approfondimento de Lavoce.info (vedi qui) corregge la qualificazione di “indice di povertà relativa” in “indice di diseguaglianza “, che è altra cosa.
  3.  il rischio di povertà o esclusione sociale è un terzo tipo di indagine, basato a sua volta da un mix di tre ordini di indicatori: 1) la povertà relativa, ridenominata “rischio di povertà“, descritta al punto precedente; 2) la grave deprivazione materiale e sociale (nuovo indicatore Eurostat “Rischio di povertà o di esclusione sociale – Europa 2030”): percentuale di persone che registrano almeno sette segnali di deprivazione materiale e sociale su una lista di tredici (sette relativi alla famiglia e sei relativi all’individuo). Segnali familiari:  non poter sostenere spese impreviste; non potersi permettere una settimana di vacanza all’anno lontano da casa; essere in arretrato nel pagamento di bollette, affitto, mutuo o altro tipo di prestito; non potersi permettere un pasto adeguato almeno una volta ogni due giorni, cioè con proteine della carne, del pesce o equivalente vegetariano; non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione; non potersi permettere un’automobile; non poter sostituire mobili danneggiati o fuori uso con altri in buono stato. Segnali individuali: non potersi permettere una connessione internet utilizzabile a casa; non poter sostituire gli abiti consumati con capi di abbigliamento nuovi; non potersi permettere due paia di scarpe in buone condizioni per tutti i giorni; non potersi permettere di spendere quasi tutte le settimane una piccola somma di denaro per le proprie esigenze personali; non potersi permettere di svolgere regolarmente attività di svago fuori casa a pagamento; non potersi permettere di incontrare familiari e/o amici per bere o mangiare insieme almeno una volta al mese. 3) bassa intensità di lavoro: percentuale di persone che vivono in famiglie per le quali il rapporto fra il numero totale di mesi lavorati dai componenti della famiglia durante l’anno di riferimento dei redditi (quello precedente all’anno di rilevazione) e il numero totale di mesi teoricamente disponibili per attività lavorative è inferiore a 0,20.

L’ISTAT applica questi ultimi tre criteri per i suoi rapporti sul rischio di povertà o esclusione sociale. Nell’ultimo report dello scorso 14 giugno 2023 (vedi qui) stima per l’anno 2022, 1)  il 20,1% delle persone residenti in Italia a rischio di povertà/povertà relativa (circa 11 milioni e 800mila individui), 2) il 4,5% della popolazione (circa 2 milioni e 613mila individui)  in condizioni di grave deprivazione materiale e sociale, ossia con almeno sette segnali di deprivazione dei tredici individuati dal nuovo indicatore. Da segnalare che questo indicatore perviene a un numero di poveri nettamente inferiore a quello presente nel report sopra-richiamato sulla povertà assoluta, 3) il 9,8% dei residenti (circa 5milioni 800mila) che vivono  in famiglie a bassa intensità di lavoro, ossia con componenti tra i 18 e i 64 anni che nel 2021 hanno lavorato meno di un quinto del tempo totale. In conclusione, L’ISTAT afferma e riporta che, sommando gli individui presenti in almeno una delle tre suddette condizioni, si ottiene che in Italia le persone residenti in condizioni di rischio di povertà e di esclusione sociale sono circa 14 milioni 304mila persone, pari al 24,4 % della popolazione residente; cioè a dire che un quarto degli italiani sono a rischio di povertà! Tale conclusione, per giunta presentata dai media come evento drammatico e fuori controllo, è palesemente fuori dalla realtà. Oltre al raffronto empirico che ciascuno di noi può trarre dall’osservazione diretta della realtà del nostro Paese, ci sono almeno tre ordini di argomenti che rendono perlomeno stravaganti le conclusioni dell’ISTAT.

1° argomento: il calcolo della povertà relativa/rischio della povertà – basato sull’individuazione NON della media dei redditi netti (33.798 euro) MA sulla mediana (11.155 euro) è inficiato da un fattore a sua volta basato sui dati “ballerini” dei redditi: la frequenza statistica dei redditi “bassi” non corrisponde alla realtà, stante il livello conclamato di evasione fiscale e di omesse denunce dei redditi (l’Italia, con 122 miliardi di evasione contributiva e fiscale nell’anno 2019 è al vertice nella UE in questa non onorevole classifica – vedi qui una sintesi dell’Università Cattolica di Milano). Ne risulta influenzata l’individuazione della mediana e la conclusione sugli 11 milioni e 800 individui a rischio di povertà resta irreparabilmente compromessa.

2° argomento:  la stima del terzo fattore di esclusione sociale, la bassa intensità di lavoro, risulta inficiata quanto alla sua corrispondenza con la realtà, solo al confrontare questo dato con i report dello stesso ISTAT sul lavoro sommerso di cui si è detto più sopra.

3° argomento: esistono altri dati statistici certi che contraddicono in modo stridente l’idea di un Paese con un quarto dei suoi abitanti a rischio di povertà (come riportato sulle slide di Itinerari previdenziali): in Italia ci sono 78,2 milioni di connessioni telefoniche (il 129,7% degli abitanti); Il 97,3% degli italiani possiede almeno uno smartphone, molti più di uno; nel 2021, secondo l’Agenzia dei Monopoli i nostri connazionali hanno investito 107 miliardi nel gioco, regolare e forse altri 13 in quello irregolare; secondo i dati ACI, il parco circolante in Italia al 2020 era di 52.750.339 unità, di cui 39.717.874 auto; solo il Lussemburgo ne ha più del nostro Paese nell’Unione Europea. L’Italia ha il 38% di tutte le immatricolazioni di moto in Europa; il 73,2% degli italiani possiede una abitazione di proprietà; all’interno delle famiglie italiane si contano oramai oltre 65 milioni di animali da compagnia e di questi circa 10 milioni sono gatti e 9 milioni sono cani; nel 2022 il mercato dei prodotti per l’alimentazione dei cani e gatti in Italia (quindi parliamo solo di cibo) ha sviluppato un giro d’affari di 2.759,5 milioni di euro per un totale di 673.449 tonnellate vendute. 

Qualcosa non funziona nella gestione delle imposte in questo Paese e nella raffigurazione statistica dei redditi degli italiani. Lungi dal sortire effetti benefici, i contribuenti mancanti all’appello e le statistiche allarmiste generano “povertà dello Stato” e raffigurazioni false, allontanando la coscienza dell’opinione pubblica dall’idea che una migliore politica di lotta all’evasione e al lavoro sommerso consentirebbe di aiutare chi veramente ha bisogno e favorirebbe l’abitudine di contribuire con le imposte al benessere comune.

Giuseppe Beato

  Dichiarazioni redditi 2020 Alberto Brambilla

 Itinerari Previdenziali – Rapporto 2021 dichiarazioni dei redditi

 Report ISTAT 2023 RISCHIO POVERTA ED ESCLUSIONE SOCIALE

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