Cosa è veramente il ceto medio?

Sono veramente lontani i tempi in cui il meglio dell’intellighenzia italiana valutava come negativo il fatto che il “ceto medio” stesse emergendo come compagine sociale quantitativamente superiore alla “classe operaria”.

Nel nostro Paese, dopo la passata prevalenza degli occupati in agricoltura, si era affermata nell’immediato dopo-guerra   una spinta poderosa all’industrializzazione che aveva posto in evidenza come prevalente sul piano numerico il ceto operaio industriale. Ma il mondo procedeva velocemente verso una successiva diversa configurazione degli assetti socio-economici. Eppure Paolo Sylos Labini, nel suo famoso “Saggio sulle classi sociali” dell’anno 1974,  indulgeva ancora nel chiamare “piccola borghesia” (con chiara accezione negativa) quell’agglomerato di forze produttive, composto da “piccola borghesia impiegatizia, coltivatori diretti, artigiani, piccoli professionisiti e commercianti”.

Una diversa percezione comune, definitivamente affermatasi dagli anni ’80, fece prevalere un’ accezione totalmente diversa al termine “classe media”: l’Italia e gli italiani avevano visto e costruito quella stravolgente evoluzione della tecnologia e delle  dinamiche produttive che ha messo al centro del panorama socio – economico il settore dei “servizi” e proprio quei settori sociali che prima si usava chiamare “piccola borghesia” ora assumevano un ruolo centrale nello sviluppo del Paese. Da notare per inciso che già, nel lontanissimo anno 1951, il sociologo Charles Wright Mills aveva individuato e descritto tale centralità nel suo famosissimo saggio “Colletti bianchi. La classe media americana”. Bene per tutti che la cultura italiana si sia  allineata a una lettura realistica delle dinamiche delle società di massa.

Dopo 50 anni, un’ampia maggioranza degli italiani si percepisce ed ama definirsi come “ceto medio”, sottintendo così uno status di positiva medietà sociale.  il sociologo Ilvo Diamanti, in recentissimo articolo dello scorso luglio, ha  commentato un sondaggio di DEMOS (di cui è presidente), che evidenzia il fatto che  la metà degli italiani  si “auto-percepisce” come “ceto medio” (si veda qui il suo articolo pubblicato su “la Repubblica).

Ma come vive il ceto medio la situazione di questi anni? Quali sono i suoi valori? Quali le aspirazioni e quali le paure? Va dato atto alla Confederazione CIDA (maggiore rappresentativa sindacale dei dirigenti d’azienda e delle alte professionalità pubbliche e private) di aver voluto porre al centro dell’attenzione della politica la questione. E’ stata promossa la realizzazione di un rapporto affidato al CENSIS e presentato nel maggio scorso alla Camera dei Deputati dal titolo “Il valore del ceto medio per l’economia e la società”. Lo riproponiamo integralmente qui sotto.

Chi prenda visione del rapporto scoprirà che è forte un sentimento di “crisi” nel ceto che fu fra gli elementi trainanti del miracolo economico italiano. C’è la percezione di un peggioramento della situazione economica, un’idea di avere alle spalle la fase storica di sviluppo italiano ( i dati purtroppo confermano questa idea, come si vede nella tabella qui sotto). Il ceto medio ha timore per la propria condizione e per quella dei propri figli. Non ha fiducia che sia ancora efficiente quell’ascensore sociale che consentiva un tempo ai meritevoli di costruire il proprio futuro: il 75% degli intervistati teme che le generazioni future staranno peggio di quelle attuali.

Rinviando al testo integrale del rapporto, merita qui di sottolineare che la metodologia dell’indagine è fondata su interviste, cioè su dati di percezione e auto-percezione. Non è detto, pertanto, che percezione e realtà siano necessariamente coincidenti. Anche la modalità di scelta degli intervistati è basata sull’auto-percezione, visto che alla domanda: “Lei si sente componente del ceto medio?” risulta che le risposte di chi si sente di appartenere al ceto medio si riferiscono al l’11,3% delle persone con un reddito annuo al massimo 15 mila euro, il 46,4% tra 15 e 34 mila euro, il 26,7% tra 35 e 50 mila euro e il 15,6% oltre 50 mila euro: ciò significa che il  dato di partenza sarebbe ben diverso se il riferimento per l’individuazione del ceto medio fosse il reddito individuale, oppure il reddito più il patrimonio, oppure ancora il reddito familiare. E’ un fatto che circa il 25% di quanti sono individuati nel rapporto come “ceto medio” si trova  in fasce di reddito molto basse o molto alte. Di qui anche la difformità delle conclusioni CENSIS  dal rapporto Demos, quanto al numero degli italiani collocabile nella categoria (60,5% per il CENSIS, 50% per DEMOS).

Le questioni metodologiche non tolgono, comunque, nulla alle conclusioni del rapporto: una visione pessimistica della realtà socio-economica da parte della gran maggioranza del ceto medio (e forse degli italiani).

Emergono  nelle convinzioni degli intervistati due punti cardine: 1. La maggioranza dell’80% degli intervistati (comprendendo quindi anche i ceti popolari e i benestanti) ritiene che l’evasione fiscale li dannegggi (p. 33 e tabella n. 8); 2. L’87% degli intervistati ritiene la managerialità un valore (nell’impresa privata e, soprattutto, nella pubblica amministrazione) e ritiene il merito un valore decisivo da difendere e rilanciare.

OCCORRE DARE GAMBE, BRACCIA E POLMONI A QUESTE ASPIRAZIONI!

Per quanto riguarda l’evasione fiscale risulta inevitabile ricorrere a una definizione statistica più articolata dell’onnicomprensiva accezione di “ceto medio”: infatti “ceto medio” sono i dirigenti e professionisti dipendenti e i pensionati sopra un certo livello di erogazione, ma anche i liberi professionisti , gli operatori del commercio, i piccoli imprenditori e i lavoratori autonomi. Dal punto di vista fiscale i “destini” delle due categorie sono molto diversi: i dipendenti pubblici/privati e i pensionati sono soggetti a ritenute alla fonte e ciò preclude qualsivoglia tentativo di dichiarare redditi imponibili diversi dalla realtà; i secondi, invece – egualmente parte viva e attiva del ceto medio – hanno sistemi di dichiarazione delle imposte diversamente impostati e maggiormente eludibili. Quando si chiede, quindi, una diminuzione delle aliquote fiscali del “ceto medio” a quali categorie del lavoro ci si riferisce? Detto in altri termini: in una dimensione di crescita esponenziale del debito pubblico, quale soluzione sarebbe preferibile per la collettività nazionale? Una riduzione delle tasse per dipendenti e pensionati oppure un migliore equilibrio fra categorie produttive nell’assolvimento degli obblighi fiscali? Nella situazione attuale del carico delle imposte, la stessa Confederazione CIDA ha pubblicizzato le conclusione di un’indagine effettuata dall’associazione “Itinerari previdenziali (vedi qui “Chi paga il welfare e le statistiche della povertà”), secondo la quale sono 40 milioni gli italiani che effettuano la denuncia IRPEF (su 59 milioni circa di residenti): di questi i 32,5 milioni di persone che dichiarano fino a 29.000 euro annui versano complessivamente un importo globale  pari al 28% del totale IRPEF, mentre circa il 20% dei dichiaranti, pari a 8,5 milioni di persone con redditi superiori (il grosso dei quali si può qualificare come “ceto medio”) paga il 72% del reddito IRPEF totale. Forse c’è qualcosa che non va. Le belle idee di correttezza fiscale declamate dai più vanno concretizzate con l’impegno di studio e le proposte di tecnici e professionisti della materia, capaci di “consigliare” un ceto politico sensibile e intelligente. Tutte le riforme dell’era degasperiana venivano preparate in questo modo. Alla base di tutto, tuttavia, si colloca (si dovrebbe collocare) un’idea di collaborazione e di  fiducia reciproca fra ceti produttivi diversi, che oggi si fatica a vedere.

Per quanto riguarda il merito nella pubblica amministrazione italiana,  la “ricetta” (richiamata fra l’altro da un precedente rapporto CIDA-CENSIS del 2021) è quella che nessuna forza politica nostrana vuole perseguire: il controllo ESTERNO parlamentare delle performance  delle pubbliche amministrazioni, con il supporto di un’autorità indipendente di valutazione: “E’ importante che il valutatore delle amministrazioni sia autonomo” afferma il CENSIS. Sarebbe e sarà una novità per il nostro Paese l’adozione concreta di una tale riforma, pure se esiste già un simile panorama di sistemi di valutazione, consolidato da decenni,  negli Stati Uniti (vedi), nel Regno Unito (vedi), in Francia (vedi) e in quasi tutti Paesi OCSE. La valorizzazione del merito nelle pubbliche amministrazioni (vedi qui alcune slide) passa da un sistema di valutazione delle performance delle amministrazioni in quanto tali e sulla valutazione dei grandi manager pubblici ai quali è affidata l’attuazione delle politiche pubbliche disposte e pianificate dall’autorità politica. il resto sono chiacchiere.

Giuseppe Beato

2024 RAPPORTO CENSIS-CIDA_20-05

 

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