La riforma sulla dirigenza cosiddetta “Renzi Madia” (bocciata dalla Corte Costituzionale pochi giorni prima del referendum costituzionale – vedi qui) probabilmente è abortita per sempre. La verità di fondo é che essa piaceva solo a ristretti circoli collegati alla Presidenza del Consiglio e alla Ministra della Semplificazione e della Pubblica Amministrazione e nessuno alla fine se ne voleva assumere la “paternità” morale.
In questo modo, tuttavia, rimangono invariati e irrisolti due grandi problemi nazionali: a) come riformare una Pubblica Amministrazione unanimemente avvertita dagli Italiani come inefficiente e irrispettosa delle legittime esigenze dei cittadini e delle imprese; b) quale ruolo e quale status attribuire alla dirigenza pubblica (e alla politica), come punto nevralgico per l’auspicata e mai avvenuta riforma.
La posizione di stallo delle iniziative e il fallimento della riforma Madia é, a nostro modo di vedere, ascrivibile anche ad un’annosa e persistente incomunicabilità fra scuole di pensiero: tali correnti d’opinione si affannano da anni nelle anticamere dei vari Ministri della Funzione pubblica proponendo visioni e prospettive profondamente divergenti: a riprova dello stallo sostanziale in cui operano i differenti punti di vista riproponiamo due articoli risalenti a cinque anni fa: 1) “I distruttori delle riforme” di Giavazzi e Alesina – vedi qui, recante la tesi – di chiara marca liberista – secondo cui sono i dirigenti pubblici i colpevoli delle mancate riforme; 2) la risposta che diede il collega Alberto Stancanelli – vedi qui – rivendicando un ruolo del dirigente pubblico che deve rimanere al riparo dagli sconfinamenti della politica sul perimetro dell’imparzialità ad essi affidata dalla Carta costituzionale. Il terzo articolo, di pochi giorni fa, é di Roberto Bin, Ordinario di diritto costituzionale – vedi qui, che ripropone una tesi antica: quella di un’autonomia senza se e senza ma del mondo delle Regioni e degli Enti locali, sempre minacciato dalla “cultura eminentemente centralistica e burocratica dei dirigenti dello Stato“. Sono tre diversi mondi e tre diverse culture istituzionali che si confrontano ormai da decenni senza trovare alcun punto di sintesi e che tentano incessantemente di scavalcarsi nelle segrete stanze dei politici di turno al potere: é una foresta ormai pietrificata dove ci si annulla reciprocamente e non si é in grado di produrre alcunché di utile per la comunità nazionale.
Si tratta, a questo punto, di ripartire dalla base di qualunque ragionamento: il diritto dei cittadini ad avere un’Amministrazione pubblica onesta, efficiente e imparziale al proprio servizio. L’onestà (leggasi: argini istituzionali alla corruzione), l’efficienza e l’imparzialità rimandano, di conseguenza, alla costruzione di un percorso condiviso di garanzie di questi tre “beni pubblici fondamentali“: la questione della riforma della PA e della dirigenza pubblica sta tutta dentro queste premesse.
Giuseppe Beato.