Riprendiamo un articolo di Francesca Mannocchi su La Stampa di oggi.
(La Striscia di Gaza ha un territorio pari alla metà di quello della Valle d’D’Aosta e una popolazione di due milioni di abitanti).
[…] oggi è anche il giorno per guardare al passato e analizzare le condizioni che hanno determinato una giornata destinata a cambiare per sempre le sorti di un conflitto mai risolto e alterare, di conseguenza, gli equilibri regionali.
La risposta di Israele su Gaza è in corso, le forze armate stanno riprendendo il possesso dei centri abitati dove sono ancora presenti miliziani di Hamas e pianificando una apparentemente inevitabile invasione di terra nella striscia di Gaza. Sabato notte un’ondata di massicci bombardamenti ha ucciso almeno 370 palestinesi (tra cui 20 bambini), altri 2000 sono stati feriti, e nell’operazione che Israele ha battezzato “Spada di Ferro” sono stati colpiti decine di edifici militari e residenziali, è stato abbattuto e ridotto in macerie il grattacielo di 14 piani che ospita gli uffici di giornali e televisioni nel centro di Gaza e che comprendeva almeno 100 appartamenti.
Tra gli edifici presi di mira la casa del leader di Hamas Yahya al-Sinwar, la sede delle istituzioni di beneficenza nel Sud di Gaza, l’edificio al-Hashem nel Nord della Striscia, che ospitava una Ong locale e 15 appartamenti civili. Tutto questo in un’area ancora segnata dalle guerre precedenti. E dove, secondo il Consiglio norvegese per i rifugiati, a febbraio quasi 2.000 case erano ancora in rovina a causa degli attacchi israeliani avvenuti negli ultimi dieci anni.
Riferisce Medici Senza Frontiere che le forze israeliane sabato abbiano colpito una clinica e un’ambulanza davanti all’ospedale Nasser, nel Sud di Gaza uccidendo un’infermiera, un autista di ambulanza e danneggiando una stazione di ossigeno.
Gli altri ospedali, sovraffollati e dipendenti dagli aiuti internazionali, stanno usando gli ultimi generatori elettrici ancora funzionanti per fare fronte al gran numero di feriti in arrivo e, secondo i dati diffusi dall’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei rifugiati palestinesi, già in 20.000 hanno lasciato le regioni di confine di Gaza per dirigersi nelle zone più interne cercando rifugio nelle scuole delle Nazioni Unite.
Gaza è una prigione a cielo aperto, un gigantesco campo profughi che vive una crisi umanitaria cronica e in costante deterioramento dal 2007, anno della vittoria elettorale di Hamas. Da allora Israele impone sulla Striscia un blocco aereo, terrestre e marittimo. Ecco perché dopo le parole nette di sabato del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che ha dichiarato: «Israele è in guerra. Lasciate Gaza, ridurremo i covi di Hamas in rovine», le organizzazioni locali fanno appello alla comunità internazionale per aprire corridoi umanitari e provare a evacuare la popolazione.
Sanno che di fronte alle parole «Lasciate Gaza», la reazione di ogni palestinese nella Striscia è «Nowhere to go». Non sappiamo dove andare. Era così anche prima, quando sopravvivevano con tre, quattro ore di elettricità al giorno, è così a maggior ragione oggi, sotto i bombardamenti israeliani e dopo che il ministro dell’Energia di Tel Aviv Israel Katz ha annunciato l’interruzione totale della fornitura energetica al territorio assediato. Decisione che si configura come un crimine di guerra.
Gaza è stata il grande rimosso degli ultimi anni e il suo destino oggi è il maggiore punto interrogativo della guerra: due milioni di persone che non hanno modo di uscire e che sono destinate a pagare il prezzo degli eventi.
Ecco perché l’immagine del bulldozer che sabato ha sfondato le barriere di sicurezza israeliane ha una enorme potenza simbolica e avrà una lunga eco per la causa palestinese, nel mondo arabo e non solo, perché come dicono gli abitanti di Gaza contattati da La Stampa nella giornata di ieri, rappresenta «la prima vittoria e la resistenza all’occupazione».
Per Samy A. (che non vuole dichiarare il suo cognome e parlava ieri mattina al telefono dalla Striscia) «la violenza dell’azione di Hamas era il solo modo per porre fine alla situazione a Gaza. Lo hanno fatto nel peggior modo possibile – dice – ma hanno ricordato al mondo che esistiamo e che non era più accettabile considerare l’assedio come una situazione che non sarebbe mai cambiata».
Muhammad, trent’anni, anche lui raggiunto telefonicamente, racconta di essere scappato da casa sua nel Sud della Striscia senza prendere niente, se non qualche vestito e delle coperte per far trascorrere la notte ai suoi due bambini piccoli.
Per la sua famiglia, come per centinaia di altre, questa guerra è un copione che si ripete. I suoi figli non erano nati durante la guerra del 2014, ma a 5 e 7 anni stavano già subendo le conseguenze dell’assedio: «Lo sapevano tutti che sarebbe successo prima o poi. Non si possono ignorare due milioni di vite in una prigione e pensare che saremmo rimasti passivi per sempre, che avrebbero potuto continuare ad umiliarci così. Ma sappiamo che la ritorsione stavolta sarà diversa. Guardo al futuro e vedo altri morti e altri martiri».
Per quasi vent’anni i leader mondiali – Stati Uniti in testa – si sono accontentati di contribuire alla sola risposta alla crisi umanitaria, anche se in maniera incostante ed insufficiente. Solo osservando eventi e numeri dei mesi appena trascorsi, era chiaro che la situazione era destinata a deflagrare. Era dalla Seconda Intifada dei primi anni 2000 che non si registravano così tanti morti palestinesi e israeliani.
A questo si aggiunge la mano libera lasciata dal governo ai coloni nell’ampliamento degli insediamenti illegali in Cisgiordania e un aumento delle irruzioni e delle violenze nella simbolica moschea di Al-Aqsa. Sullo sfondo, lo stallo di Gaza che nessuno ha saputo o voluto affrontare. Perciò, per tutti, oggi è anche il giorno della ricerca delle responsabilità nelle falle della sicurezza dei servizi israeliani ma anche delle responsabilità politiche. Dopo 15 anni quasi ininterrotti di leadership di Benjamin Netanyahu, molti hanno assorbito la sua visione del conflitto, quella cioè di una cristallizzazione dell’isolamento di Gaza.
Il quotidiano israeliano Haaretz, ieri mattina, titolava un durissimo editoriale con queste parole: «Netanyahu è responsabile di questa guerra tra Israele e Gaza». Si legge: «Il primo ministro, che si vantava della sua vasta esperienza politica e della sua insostituibile saggezza in materia di sicurezza, non è riuscito a identificare i pericoli verso i quali stava consapevolmente conducendo Israele quando ha istituito un governo di annessione ed esproprio, quando ha nominato Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir a posizioni chiave, abbracciando al tempo stesso una politica estera che ignorava apertamente l’esistenza e i diritti dei palestinesi». Tesi rafforzata anche da Anshel Pfeffer, corrispondente da Israele per The Economist, che ieri scriveva: «Netanyahu ha cercato di ignorare Gaza durante i suoi molti anni in carica. Non ha mai fatto progetti per il suo futuro e dopo ogni round di combattimento si è affrettato ad occuparsi di altro. Ora sarà ricordato per sempre dagli israeliani per questo disastro. Questa è la sua eredità». La ritorsione per l’attacco sferrato da Hamas verrà pagata col sangue dei civili di Gaza, ma le conseguenze politiche dell’accaduto probabilmente saranno due. La prima, la crisi definitiva dell’era Netanyahu.
La seconda, il rafforzamento di Hamas in Cisgiordania, dove la popolazione è sempre più lontana dalla politica dell’Autorità Palestinese, considerata troppo debole e compromessa dalla collaborazione con Israele e dal suo leader, Mahmoud Abbas, che non gode più da tempo di legittimità tra i palestinesi. Quello che l’attacco di Hamas, quindi, rischia di generare negli animi dei palestinesi frustrati e soprattutto delle generazioni più giovani, è che il gruppo armato appaia come il solo in grado di riportare al centro una questione troppo a lungo ignorata. C’è tutto questo nell’immagine dello squarcio aperto dal bulldozer che ha demolito la rete che confinava Gaza nell’assedio. Il sangue dei civili e il rischio di nuovi estremismi.
Francesca Mannocchi 9 ottobre 2023