I furbetti del cartellino e l’etica del servizio pubblico.

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L’umiliante sequela di denunce ai “furbetti del cartellino” – vedi da ultimo  i 55 arresti in una ASL – non accenna a diminuire, anche a dispetto di norme già in vigore che prevedono il licenziamento con procedura d’urgenza (un mese ) per chi venga colto a truffare i sistemi di rilevazione delle presenze. La protervia dimostrata dai responsabili di questi reati sta minando ormai quasi definitivamente la credibilità degli impiegati pubblici (circa 3,2 milioni) agli occhi dei restanti 57 milioni di loro concittadini . E rende più impervia la strada del rinnovamento delle pubbliche amministrazioni.

Spiace doverlo ammettere, ma la mentalità e la cultura profonda dei “furbetti del cartellino”, con la loro inossidabile fiducia di farla franca, ricordano da vicino la prepotenza e la violenza sorda degli antichi latifondisti meridionali che imperarono per anni sui loro contadini non accettando alcuna ragione di civiltà e di rispetto per “l’altro”. Giovanni Verga ha scritto pagine stupende di descrizione di questo atteggiamento mentale. Tali dirigenti e dipendenti – incuranti del privilegio che hanno in questi tempi di crisi occupazionale – concepiscono e vivono il loro “posto fisso” come proprietà personale inalienabile; essi applicano a un diverso contesto – in cui deve dominare la cultura del servizio ai cittadini – le regole del diritto di proprietà privata: “il posto è mio, nessuno me lo può toccare e ci faccio quello che voglio”.

Nelle pubbliche amministrazioni italiane, – nascosti in mezzo a una maggioranza di impiegati innamorati del loro lavoro e rispettosi dei cittadini che amministrano – siedono i residui di una cultura feudale inoculata negli uffici pubblici italiani negli ultimi decenni dell’’800, cultura che rovina completamente i contesti lavorativi in cui prevale.

Ben lungi da voler attribuire “al meridione” la responsabilità dell’inefficienza di molta burocrazia italiana, cionondimeno è necessario effettuare una profonda riflessione storica su un Paese che costruì la propria pubblica amministrazione unitaria con circa due secoli di ritardo rispetto alla rivoluzione industriale avvenuta negli altri Paesi europei (Francia, Inghilterra, Germania); in tali Paesi l’industrializzazione e l’emergere di ceti imprenditoriali/borghesi avvenne in parallelo con lo sviluppo delle funzioni dell’Amministrazione pubblica; in molti ambiti, quale quello dei lavori pubblici, l’intervento pubblico creò le condizioni di base per lo sviluppo economico. In Italia, al contrario, il tardivo sviluppo industriale iniziato nel secolo XIX e proseguito nel tempo, è avvenuto per “imitazione” dei Paesi più avanzati e si è evoluto a prescindere da un’azione di stimolo e di spinta proveniente dalla pubblica amministrazione. Piuttosto, l’amministrazione si è sempre distinta come una sorta di piombo sulle ali rispetto alla società civile che cammina. Essa non è mai stata avvertita dalle classi dirigenti e dall’opinione pubblica come “utilità” e “sostegno alla crescita”, ma come impaccio e freno. Né chi in amministrazione pubblica operava è riuscito mai a riagganciarsi al treno dello sviluppo e dell’efficienza che una società industriale avanzata reclama dalle funzioni burocratiche.

 Il disinteresse fondamentale e il fastidio del ceto politico di ogni epoca post-unitaria per l’amministrazione pubblica (salve poche eccezioni) ha contribuito a generare all’interno delle strutture burocratiche nostrane  un senso di emarginazione e di artificiale persistenza di routine lavorative a prescindere da ciò che accadeva intorno. Ciò ha consentito che la cultura del posto fisso e lo scudo della regolarità formale diventassero il comodo paravento per allontanare l’etica dell’efficienza e del servizio connaturata allo spirito delle Amministrazioni pubbliche dei Paesi avanzati.

Questo è il nucleo persistente di anormalità che pervade le nostre Amministrazioni pubbliche, al di là e al di sotto delle “riforme”, delle leggi astruse e del  periodico “riordino” degli equilibri di potere.

 L’ indisciplina diffusa  imperante – a dispetto dei moltissimi impiegati pubblici onesti ed efficienti che tengono in qualche modo in piedi la PA– è il sintomo di un male profondo che in molti ambiti organizzativi si respira prima, molto prima delle truffe dei badge e dei giorni di assenza “rubati”.

Contro la truffa dei badge o le mille astuzie per marcare assenze giornaliere, contro l’indifferenza e il distacco verso i doveri pubblici, sarà utile comprendere che è necessario, oltre agli indispensabili interventi repressivi, distruggere la cultura del posto di lavoro pubblico come proprietà personale, senza tuttavia “buttare il bambino con l’acqua sporca”: preservando, cioè, quel principio della stabilità e pubblicità della funzione pubblica, rispettato negli altri Paesi occidentali, non per consentire alle persone di “farsi i fatti loro”, ma per garantire l’imparzialità e la neutralità delle scelte effettuate e la cura degli interessi generali.

Il principio della stabilità del posto di lavoro deve accompagnarsi con una cultura del servizio e dell’efficienza, senza la quale si deve negare tale diritto.

La nostra idea in proposito è che, oltre ai doverosi “bagni di formazione” sull’etica di servizio al cittadino e alle imprese, un nuovo modo di essere si imporrà – come in altri Paesi avanzati quali gli Stati Uniti – solo quando saranno effettivamente funzionanti i metodi di valutazione delle performance individuali. Non si sfugge a questo vincolo: fino a quando i giudizi e i premi rimarranno assegnati a tutti in eguale misura, i “cattivi” sfuggiranno sempre alle maglie di una doverosa “rieducazione”. Di più: i sistemi di valutazione devono essere mirati soprattutto a premiare i migliori, molto prima e meglio che “punire” i mediocri! Vanno evitati tutti i sistemi di valutazione “punitivi”, peggio se punitivi di un’intera categoria, come lo stupido articolo 19 del decreto legislativo n. 150/2009. Chi scrive ricorda perfettamente che gli interventi più dirompenti nel suo vecchio posto di lavoro non erano le punizioni erogate ai “pessimi”: quelle in qualche modo venivano metabolizzate nel sistema e non generavano alcuno “scatto” qualitativo nel gruppo di lavoro. Ciò che invece mandava letteralmente in tilt la “massa” tranquilla dei più erano i premi (non solo finanziari, ma qualunque tipo di riconoscimento) che venivano attribuiti agli impiegati più diligenti, più produttivi, più discreti. Il motivo ci pare molto semplice e intuitivo: premiare i migliori significa rompere la consuetudine consolidata per cui “al buio tutti i gatti sono bigi”: della serie, “l’ufficio non funziona, nessuno lavora, quelli che lavorano destano compassione”! Premiare gli efficienti significa dare un colpo mortale alla cultura del posto fisso come proprietà privata personale, perché evidenzia come vincente un’altra cultura, quella del servizio pubblico e dell’efficienza; ciò fa emergere in tutta la sua misera realtà il tranquillo torpore e menefreghismo degli infingardi.

Ci pare questa una delle sicure carte vincenti per un riallineamento della PA italiana ai livelli di un Paese avanzato.

Giuseppe Beato

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