Era uno dei passaggi cardine dell’iter di approvazione degli schemi di decreto legislativo n. 391(vedi qui) e n. 393 (vedi qui) sottoposti dal Governo anche all’intesa della conferenza Stato Regioni e alla valutazione finale delle due Camere: con i pareri n. 916 (vedi qui testo) e n. 917 (vedi qui testo) resi pubblici lo scorso 21 aprile 2017, il Consiglio di Stato si è pronunciato sulle modifiche ai decreti legislativi, rispettivamente, n. 165 del 2001 e n. 150 del 2009. Si trovano sul sito del Consiglio di Stato le sintesi sommarie (vedi qui per n. 916 e vedi qui per n. 917) del contenuto di tali pareri.
Ciò che comunque caratterizza al massimo la nuova produzione legislativa, al di là di altre pur significative previsioni, é la disciplina delle fonti ed i rapporti fra legge e la contrattazione collettiva con le modifiche previste agli articoli 2, 5 e 40 del decreto legislativo n. 165/2001. Su tale “novella” legislativa abbiamo già espresso il nostro pensiero, sia in relazione ai contenuti delle nuove disposizioni ( vedi qui “il decreto Madia sul pubblico impiego è un ritorno al passato”), che in relazione alla carenza di delega secondo noi presente nella normativa governativa (vedi qui la nostra tesi).
Su tutte e due le questioni dobbiamo registrare una posizione complessivamente difforme presente nel parere n. 916 del Consiglio di Stato. In ordine al rapporto fra le due diverse fonti normative il CdS alla pagina 29 si limita ad affermare che “sarebbe auspicabile che la legge definisse direttamente, in modo sistematico ed organico, i rapporti tra legge ed autonomia collettiva e stabilisse in modo puntuale i diversi campi o le materie di intervento, o assegnasse inequivocabilmente alla prima la funzione di stabilire i principi generali ed affidasse, invece, alla seconda la disciplina di dettaglio, di evoluzione e di adattamento alle singole situazioni, anche in ragione degli interessi pubblici sottesi al rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni che spesso mal si prestano ad una regolamentazione esclusivamente o prevalentemente pattizia, evitando così che in concreto la disciplina del rapporto di lavoro pubblico possa essere soggetta all’influenza temporanea dei contingenti indirizzi politici”.
In ordine poi alla questione della carenza di delega da noi sollevata in ordine alle modifiche normative introdotte dal decreto legislativo, il CdS fa proprie le tesi esposte dal Governo sul punto e afferma (pagina 30) che “sembra anche trovare adeguata copertura nella delega legislativa, in particolare nella generale finalità di semplificazione del settore in questione (comma 1, lett. a), dell’art. 16 della legge n. 124 del 2015) e negli specifici principi e criteri direttivi di cui al successivo comma 2, lett. b) (coordinamento formale e sostanziale del testo delle disposizioni legislative vigenti, apportando le modifiche strettamente necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e per adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo) e lett. c) (risoluzione delle antinomie in base ai principi dell’ordinamento e alle discipline generali regolatrici della materia), nonché nel comma 1, lett. h), dell’art. 17 (che prevede, tra l’altro, la concentrazione delle sedi di contrattazione integrativa, la definizione delle materie escluse dalla contrattazione integrativa anche al fine di assicurare la semplificazione amministrativa, la valorizzazione del merito e la parità di trattamento tra categorie omogenee, nonché di accelerare le procedure negoziali)”.
Pur rimanendo convinti della giustezza delle nostre affermazioni, soprattutto in relazione alla mancanza nel testo delle legge delega di qualunque criterio specifico di regolazione sul punto, tuttavia abbiamo coscienza del fatto che “i giudici a Berlino” non esistono solo quando ci danno ragione, ma anche quando si pronunciano in modo contrario ai nostri punti di vista. Pertanto, pur curiosi di ascoltare in futuro il parere sulla questione della competente Corte Costituzionale, capiamo che la materia della regolazione normativa del pubblico impiego e della valutazione delle performance dovrà essere portata sul piano del dibattito culturale e politico. In quella sede c’è ampio margine per dimostrare che le tematiche relative all'”organizzazione del lavoro nell’ambito degli uffici” e della “valutazione delle prestazioni” dei dipendenti non possono essere lasciate alla contrattazione collettiva o ad altre forme più o meno cogenti di “partecipazione” sindacale, ma vanno riassunte al pieno controllo della legge, dei regolamenti e della dirigenza pubblica, pena il ritorno dell’amministrazione pubblica dentro un confuso ambito di cogestione sindacale, già sperimentata in anni passati e sconosciuta negli altri Paesi occidentali avanzati.