I vizi antichi della nostra pubblica amministrazione: dagli appunti del 1866 di Pasquale Villari.


Pasquale Villari

Pasquale Villari (1827-1917), storico e politico, visse in prima persona le vicende del Risorgimento (partecipò ai moti di Napoli del 1848 e fu esiliato dai Borboni) e, sopratutto, quelle dei primi decenni dell’Unità d’Italia, con il suo cammino rivelatosi subito incerto e non al passo delle altre grandi Nazioni europee, costituite in stati unitari secoli prima. Fu fra i primi scrittori ad affrontare la “questione del Sud Italia”, come materia di approfondimento cardinale per la comprensione dell’Italia unita. Sue le “Lettere meridionali“, un a raccolta di scritti e riflessioni in cui il suo interesse non si limitò alle questioni della povertà, della delinquenza (mafia e camorra) e del brigantaggio, ma affrontò altri temi sociali e istituzionali riguardanti lo Stato italiano come un tutt’uno, fra quali quello della pubblica amministrazione dell’Italia da poco unificata. Nel suo scritto del dicembre 1866 intitolato “Di chi é la colpa?” , il Villari verga giudizi feroci e definitivi sull’efficienza e sulla qualità complessiva dell’amministrazione pubblica italiana. L’innesco dell’esposizione derivò dalle recentissime disonorevoli disfatte dell’Esercito nella battaglia di Custoza e della Marina nella battaglia navale di Lissa, nel corso della guerra contro l’Austria (III guerra d’indipendenza – vedi): il Villari faceva derivare quelle sconfitte, non da una mancanza di valore individuale dei combattenti, ma dall’assenza di organizzazione complessiva delle forze armate: “Ove la differenza del numero non renda impossibile la lotta, la nazione che vince non è quella che ha solamente più eroismo, abnegazione ed entusiasmo; ma è la nazione più civile…..Ora che gli eserciti son divenuti cosi numerosi………e si muovono con tanta rapidità, che gli ordini si dànno col telegrafo e si eseguono colle strade ferrate; il piano di battaglia è divenuto un lavoro di scienza, e la direzione di queste grandi masse richiede, se non genio, che questo non si può sempre avere, almeno grande ingegno e grande coltura in tutti coloro che comandano. L’approvvigionamento richiede una grande capacità amministrativa, e i mezzi d’offesa e di difesa sono divenuti così complicati, che tutte le operazioni militari suppongono nell’esercito e nella flotta una grandissima forza industriale“.

Da questo “spunto” che denota lo spirito guerrafondaio di quei tempi, Villari, tuttavia, procede ad un’analisi delle cause dell’inefficienza e  della scarsa qualità dell’Amministrazione post-unitaria. Tutto il contenuto del suo scritto é incentrato sul patrimonio di professionalità individuale indispensabile per il personale reclutato negli uffici pubblici. La disamina del Villari sui livelli di professionalità presenti all’epoca inizia con una raffigurazione  degli impiegati del 1866, a secondo della loro derivazione storica; vengono individuati tre gruppi di riferimento : a) gli impiegati dei vecchi governi annessi dal Regno del Piemonte; b) i patrioti liberali assunti nelle fila della PA; c) gli impiegati piemontesi. a)Gli impiegati dei vecchi governi: da una rivoluzione violenta sarebbero stati licenziati in massa; ma la nostra, pacifica e tranquilla, dovette invece accettarne un grandissimo numero. La loro esperienza ci era necessaria, non avendo noi avuto il tempo di formare una nuova generazione; e fra di essi v’eran pure uomini abilissimi che resero grandi servigi al paese. Ma, in fine dei conti, lasciando da parte le eccezioni lodevoli, ognuno può facilmente comprendere quanto abili dovessero riuscire a governare con la libertà un paese di ventidue milioni, coloro che avevano formato le amministrazioni, corrotte o microscopiche, di governi caduti per la loro ignoranza e pel loro cieco dispotismo”. b) Per quanto riguarda i liberali “la burocrazia è una professione come un’altra, che richiede studii speciali, lungo tirocinio e, sopra tutto, lunghissima esperienza. I liberali venivano, invece, dagli esilii, dalle galere, dalle cospirazioni, dal campo dei volontarii, e d’un tratto, si trovavano nei più alti ufficii, dati loro in premio delle sofferenze patite.” Villari cita un esempio in cui un patriota laureato alle prime armi, già impiegato in un’amministrazione pubblica senza concorso “venne a licenziarsi, perché lo avevano nominato giudice nell’isola di Capri. Di questi fatti se ne possono citare a migliaia”. c) Quanto ai Piemontesi “Volere o non volere, siccome l’esercito piemontese fu il nucleo intorno a cui si formò l’esercito italiano, cosi il governo e l’amministrazione del Piemonte dovevano formare il governo e l’amministrazione d’Italia…….febbrile attività del Cavour dava un moto accelerato a quel piccolo Stato che, se era ben lungi dal potersi ancora paragonare al Belgio o all’Olanda, si poteva certo fra di noi chiamare uno Stato modello, e come tale fu d’esempio e di scuola all’Italia……..Pure le antiche tradizioni non s’erano spezzate, e l’organismo amministrativo e governativo, nonostante il moto che condizioni tanto favorevoli gì’infondevano, era sempre condotto da un gran numero di vecchi arnesi,………ma quando la trama di questa tela si dovette stendere sopra l’assai più vasta superficie dell’Italia……..un’amministrazione lenta, pedantesca, intricata e tenacissima delle sue vecchie tradizioni, si trovavano a condurre le cose d’Italia coloro che avevano appena saputo amministrare il Piemonte”

A partire da questo nucleo iniziale “raccogliticcio”si trattava d’attuare le leggi e la politica del Piemonte, e i suoi uomini avevano una reputazione d’onestà, di capacità ed attività superiore agli altri. Era necessario perciò moltiplicare il numero dei suoi impiegati, e cominciò quindi un rapido movimento di ascensione dai gradi più bassi ai superiori…...cosi il buon maestro elementare di Torino diveniva, nell’Italia meridionale, un cattivo ispettore, un pessimo direttore. E questo lavoro si esegui sopra una larghissima scala…….Quindi, nel medesimo tempo, si vide sgovernata l’Italia, peggiorato il Piemonte, e buoni impiegati divenire mediocri o pessimi; perché, capaci a condurre la piccola barca del Piemonte tranquillo, si trovavano incapacissimi a condurre, con assai maggiori ufficii, la nave d’Italia, in un mare tanto burrascoso. Il paese si trovò invaso da una moltitudine sempre crescente d’incapacità burocratiche, che moltiplicavano da ogni lato come le locuste“.

Come si vede un giudizio spietato e disarmante sulla pubblica amministrazione dell’Italia unita nell’anno 1866.

Per migliorare la qualità della pubblica amministrazione era necessario, secondo il Villari, puntare sulle individualità, rendere attrattiva per i giovani migliori la carriera nella pubblica Amministrazione come era in Prussia e in Inghilterra. Tre gli impedimenti di fondo che rendevano problematica tale fondamentale prospettiva di crescita: a) il vizio tutto italiano della “calunnia“; b) le “consorterie”, cioè a dire quelle che noi oggi chiamiamo le corporazioni; c) i sistemi di assunzioni a chiamata libera senza concorso pubblico, come invece in Prussia e in Inghilterra, dove si selezionavano i migliori elementi per i posti pubblici in cui si richiedevano i diversi tipi di professionalità e conoscenze. Sulla calunnia:Avete voi mai conosciuto un paese dove la calunnia sia così potente e cosi avida, dove in cosi breve tempo si sia lacerato un ugual numero di riputazioni onorate? Si grida per tutto che ci vogliono uomini nuovi, perché gli uomini vecchi sono già consumali; ma non appena si vedono i segni di un qualche giovane di vero ingegno che sorge, un mal volere, direi quasi, un odio infinito, s’accumula contro di lui e lo circonda. La mediocrità è una potenza livellatrice, vorrebbe ridurre tutti gli uomini alla sua misura, odia il genio che non comprende, detesta l’ingegno che distrugge l’armonia della sua ambita uguaglianza.” Sulle  corporazioni: “Il conte di Cavour, colla sua personalità e col suo genio politico, teneva uniti molti di quei gruppi, e, sollevando a tempo dello grandi questioni, agitava il paese quando ne aveva bisogno. Ma dopo la sua morte i gruppi si divisero, e le consorterie moltiplicarono……Appena uno di questi gruppi saliva al potere, si trovava intorno un paese che non suggeriva nulla, ma chiedeva di essere sollevato; e di fronte si trovava gli altri gruppi tutti nemici, perché tutti desiderosi del potere. Quindi le avversioni personali, meschine…….Se il Governo poi voleva aiuto; se aveva bisogno d’un segretario, d’un prefetto, d’un impiegato, non poteva sceglierlo che fra il piccolo numero degli amici fidati……Il Governo si riduceva così inevitabilmente nelle mani di pochi, ed era quello che li rendeva odiosi“. Sui pubblici concorsi: “Chi dunque ci ha fatto lasciare una parte cosi importante dello Stato in un disordine permanente…….noi ammettiamo agl’impieghi minori senza esame e senza concorso; la Prussia non ammette a concorrere agl’impieghi di Stato chi non abbia fatto un corso regolare di studii classici. Noi facciamo passare da un impiego all’altro, quasi per sola anzianità, e la Prussia sa quali sono le cognizioni richieste in ciascuno dei principali rami d’amministrazione, e prima di farvi entrare qualcuno vuole prove ben sicure…..Se un paese doveva trovare difficoltà ad accettare il sistema prussiano degli esami e concorsi, per tutti gl’impieghi, questo era l’Inghilterra……l’Inghilterra subito pose mano arditamente alla riforma….finì con la legge che sottopose agli esami quasi tutti gl’impieghi……gl’Inglesi hanno potuto persuadersi, che la competitive examination era la base più essenziale della riforma amministrativa“.

La conclusione sferzante: “Noi, invece, ci siamo divertiti a crescere o diminuire il numero delle Divisioni, dei segretari, a creare direttori, ispettori, commissaii; e queste miserie furono le nostre riforme.  

Nel 1866, 150 anni fa, il Villari parlava già di riforme fallite della pubblica amministrazione……come non vedere un nodo e un impedimento permanente  legato alle caratteristiche strutturali  del nostro “Sistema Paese”?

I vizi futuri della PA italiana sono già in larga parte prefigurati nello scritto di Pasquale Villari, che riproponiamo qui sotto nella sua stesura integrale, un po’ ridondante  e pletorica, non ancora “ripulita” da quel provvidenziale “bagno in Arno” che Alessandro Manzoni seppe indurre nella letteratura italiana.

 Pasquale_Villari_1866 Di chi è la colpa

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