La polemica endemica sulla cosiddetta “direttiva Bolkestein” – dal nome del Commissario Europeo per il Mercato Interno, la Tassazione e l’Unione Doganale dell’epoca in cui fu promulgata la direttiva n. 123/2006/CE (vedi qui il testo) – investe due precisi settori di attività economica (ancorché la direttiva medesima si riferisse a “qualunque attività economica, di carattere imprenditoriale o professionale, svolta senza vincolo di subordinazione, diretta allo scambio di beni o alla fornitura di altra prestazione anche a carattere intellettuale“): 1. le concessioni balneari sul suolo del demanio marittimo; 2. le concessioni al commercio al dettaglio su aree pubbliche.
Ciascuno di questi due settori ha ricevuto in Italia una trattazione giuridica diversa ma, per ambedue, il risultato pratico continua ad essere ad oggi la disapplicazione delle prescrizioni della direttiva in questione.
La questione verte sul regime delle licenze degli esercizi commerciali a tali due titoli.La prassi instauratasi dalla “notte dei tempi” nel nostro Paese consiste sostanzialmente in due punti precisi: a. la durata delle concessioni di demanio marittimo e al commercio ambulante prolungata di volta in volta a tal punto da identificarsi con una sostanziale assenza di termini delle concessioni/autorizzazioni; b. in ogni caso il rinnovo automatico, senza alcuna pubblicità né gare, della concessioni se e quando queste vengano a scadenza. La direttiva europea n. 163/2006/CE capovolse quella consolidata prassi regolatoria fissando i due principi opposti: a1: una durata predefinita dei periodi di concessione/autorizzazione; b2: gare ad evidenza pubblica aperte anche a tutti i possibili aspiranti, in luogo del “tradizionale” rinnovo tacito e automatico delle concessioni.
Il tono altissimo, a tratti violento, delle polemiche contro la direttiva 123/2006/CE va riferito direttamente agli interessi economici dell’ingente numero di titolari delle licenze di attività. Per le concessioni di demanio marittimo, sono coinvolti secondo UnionCamere n. 6.823 stabilimenti, responsabili di ben 29.689 concessioni (gran parte degli stabilimenti sono titolari di più di una concessione). In media ognuno di essi ha ricavi di 190.700 euro, per un valore aggiunto di 85.800 euro e un reddito d’impresa di 22.600. Il giro d’affari stimato del settore si aggira intorno ai quindici miliardi di euro all’anno, a fronte dei quali l’ammontare dei canoni di concessione supera di poco i cento milioni di euro, (vedi qui le statistiche) . Le imprese di commercio ambulante, invece, sono in Italia più di 180.000 (dato Unioncamere), di natura prevalentemente individuale con un reddito medio dichiarato di meno di 15.000 euro annui (abbondantemente sotto-certificato, visto lo scarso uso di ricevute fiscali nelle compravendite).
Gli interessi commerciali degli attuali esercenti di queste imprese sono chiaramente orientati a sostenere il rinnovo automatico delle licenze in essere, senza qualsivoglia forma di gara pubblica. Tuttavia esiste un evidente contrasto con i principi della libera concorrenza così come delineati dai trattati e dalla direttiva in questione (oltre che dalla nostra Costituzione). Ciò non ha impedito l’instaurarsi di una feroce diatriba giuridica che forse solo ora accenna a definirsi nel senso previsto dalla direttiva Bolkestein dello scorso anno 2006. Vediamone i termini giuridici, che sono distinti fra le due categorie, a motivo della diversa regolazione intervenuta da parte del legislatore italiano.
Va comunque premesso che, come noto, le direttive UE esplicano i loro effetti attraverso l’obbligo per le legislazioni nazionali di tradurre con legge dello Stato e specificare i principi in esse contenuti, con salvezza di quelle disposizioni – non di principio ma direttamente attuative – che, per la loro natura esplicitamente prescrittiva, si applicano ai Paesi membri direttamente e non sono revocabili o eludibili dai legislatori nazionali (si parla in tal senso di disposizioni di natura “self executing”). La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha titolo giuridico esclusivo a interpretare la normativa comunitaria e da tali valutazione non si può discostare il legislatore nazionale. Esiste, infine, un dovere di non applicazione per le pubbliche amministrazioni delle disposizioni legislative nazionali giudicate dalla CGUE in contrasto con i principi dei trattati e delle disposizioni self executing contenute nelle direttive .
In Italia le legge nazionale che tradusse in regole articolate i principi contenuti nella direttiva “Bolkestein” fu il decreto legislativo n. 59 del 26 marzo 2010 (vedi qui il testo originario).
LE CONCESSIONI DI BENI DEMANIALI MARITTIMI CON FINALITA’ TURISTICO-CREATIVE.
Per quanto riguarda le concessioni degli arenili e degli impianti di balneazione, la questione, che si protrae da circa 15 anni, pare definitivamente chiusa dal punto di vista giuridico dalle recentissime sentenze del Consiglio di Stato n. 17 e 18 del novembre 2021, che si allegano di seguito. Vale la pena ricordare gli antefatti in rapidissima sintesi.
Si ricordano: a) la legge n. 296/1996 (articolo 1, comma 253) che aveva fissato in una “durata superiore a sei anni e comunque non superiore a venti anni” delle concessioni; b) il decreto legge n. 190/2009, conv. in legge n. 25/2010 (articolo 1, comma 18) che, “nelle more del procedimento di revisione del quadro normativo in materia di rilascio delle concessioni di beni demaniali marittimi”, prorogò la durata delle concessioni allora in essere fino al 31 dicembre 2012; c) il decreto legge n. 179/2012 che posticipò tale termine al 31 dicembre 2020; d) la legge di bilancio n. 145/2018 (articolo 1, commi 675-685) che prescrisse una durata di 15 anni e una proroga per quelle in essere “di quindici anni a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge” (cioè fino al 31 dicembre 2032); e) il decreto legge n. 34/2020 (articolo 182, comma 2) che sostanzialmente confermava le disposizioni legislative dell’anno precedente legandole pure alla situazione d’emergenza determinatasi con la pandemia COVID 19; f) la legge n. 178/2020 (articolo 1, comma 670) che consente tale proroga anche alle concessioni in essere al 31 dicembre 2018.
Nel frattempo sono intervenute dalla UE: a1) la procedura d’infrazione n. 2008/4908 che poneva in discussione le disposizioni di legge italiana che prevedevano un sistema di preferenza per il concessionario uscente ovvero di rinnovo automatico della concessione già assentita (vedi qui), b1) la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 14 luglio 2016 che sancì che la direttiva Bolkestein “osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione”; c1) la seconda procedura d’infrazione n. 2020/4118 dello scorso dicembre 2020 (vedi qui) che in modo crudo ed esplicito ricorda che “il quadro giuridico nazionale che prevede la reiterata proroga della durata delle concessioni balneari compromette gravemente la certezza del diritto a danno di tutti gli operatori in Italia, compresi gli attuali concessionari, che non possono contare sulla validità delle loro concessioni esistenti. A causa dell’illegalità del quadro normativo italiano, le concessioni prorogate dalla legislazione italiana sono impugnabili e soggette ad annullamento da parte dei tribunali italiani. Le autorità locali hanno il dovere di rifiutarsi di rinnovare le concessioni in linea con l’obbligo, che incombe a tutte le autorità nazionali, di adoperarsi al massimo per dare attuazione al diritto dell’UE e conformarsi alle sentenze della CGUE”.
La giurisprudenza europea e italiana, conformemente, prevedono che il giudice di ultima istanza di un Paese membro UE possa definitivamente deliberare la non conformità della legislazione nazionale alla normativa europea e dichiarare a beneficio degli organi amministrativi “non applicabile” la normativa nazionale in contrasto con le disposizioni self executing di una direttiva europea.
Alla luce del quadro normativo sopra delineato, le sentenze n. 17 e 18 del 9 novembre u.s. del Consiglio di Stato hanno dichiarato: 1. Che la disposizione di cui all’articolo 12 della direttiva Bolkestein – che prevede in modo immediatamente prescrittivo “una procedura di gara trasparente ed imparziale per il rilascio di autorizzazioni”, ha la natura self executing; 2. Che la Corte costituzionale (sentenza n. 389 del 1989) ha ribadito che “tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza o valore di legge) – tanto se dotati di poteri di dichiarazione del diritto, come gli organi giurisdizionali, quanto se privi di tali poteri, come gli organi amministrativi – sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con le norme comunitarie nell’interpretazione datane dalla Corte di giustizia europea”; 3. le spiagge italiane (così come le aree lacuali e fluviali) per conformazione, ubicazione geografica e attrazione turistica presentano tutte e nel loro insieme un interesse transfrontaliero certo, il che implica che la disciplina nazionale che prevede la proroga automatica e generalizzata si pone in contrasto con gli articoli 49 e 56 del TFUE; 4. Che la stessa Corte Costituzionale, a partire dal 2010, è più volte intervenuta sulla questione, dichiarando costituzionalmente illegittime alcune disposizioni regionali – per mancato rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento U.E. (art. 117, primo comma, Cost.) – che prevedevano proroghe delle concessioni demaniali marittime in favore dei titolari delle concessioni, quando determinavano “un’ingiustificata compressione dell’assetto concorrenziale del mercato della gestione del demanio marittimo”. Le sentenze qui ricordate in estrema sintesi sviluppano nei particolari i termini giuridici che impongono l’obbligo per le autorità amministrative statali e territoriali di disapplicare la normativa nazionale di rinvio all’anno 2032. Il rinnovo delle concessioni in essere viene, infine, fissato per il 31 dicembre 2023, oltre la quale data “esse cesseranno di produrre effetti”. In altre parole viene assegnato il termine entro il quale le autorità amministrative dovranno effettuare e concludere le gare per il rinnovo delle concessioni demaniali.
Corte di Giustizia UE, Commissione europea, Corte Costituzionale, Consiglio di Stato paiono ormai un “fronte” sufficientemente compatto per indurre chi ne ha il compito e la responsabilità a uniformarsi ai principi della libera concorrenza (ricordando infine, per chi non sapesse, che spiagge, laghi, fiumi, arenili e impianti di balneazione si chiamano per dettato costituzionale “demanio” proprio perché appartengono alla comunità nazionale e non sono proprietà dei concessionari).
LE AUTORIZZAZIONI ALL’ESERCIZIO DEL COMMERCIO AL DETTAGLIO NELLE AREE PUBBLICHE
Anche qui siamo nel pieno contesto della direttiva Bolkestein; tuttavia cambiano la legislazione italiana di riferimento e le modalità con le quali il contenuto di tali disposizioni legislative ha inteso ESPLICITAMENTE derogare alle prescrizioni europee. La base di partenza è anche qui l’articolo 12 della direttiva in questione (prescrizione dell’obbligo di effettuare le procedure di selezione fra i candidati) e le disposizioni conseguenti emanate col decreto legislativo n. 59/2010. Solo che, successivamente, il legislatore nazionale, con la legge di bilancio n. 145/2018 (articolo 1, comma 686) ritenne di fare un salto mortale carpiato: fu modificato il testo del d. lgs. 59 citato, nel senso di escludere “il commercio su aree pubbliche” dal raggio di competenza della direttiva UE. A nulla valsero gli avvertimenti che doverosamente ritenne di fare il Servizio Studi del Senato, nell’illustrare le disposizioni in approvazione (vedi qui): fu ricordato “quanto evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale, che ha specificamente dichiarato (cfr. sentenza n. 291 del 2012) l’incostituzionalità di disposizioni regionali che prevedevano l’inapplicabilità al commercio su aree pubbliche di quanto previsto dall’art. 16 del D.Lgs. n. 59 del 2010 (attuativo dell’art. 12 della direttiva Bolkestein)”. Quella disposizione legislativa, a dispetto degli avvertimenti, divenne ed è ancora oggi legge dello Stato.
Siamo alle ultime battute. L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, con nota n AS1720 del 21 febbraio 2021 indirizzata al Comune di Roma (si veda il testo della nota in questione), dopo aver ricordato che la legislazione nazionale italiana “non ha previsto l’ espletamento di alcuna procedura ad evidenza pubblica” e “la durata eccessivamente lunga delle concessioni e il rinnovo delle stesse senza adeguate procedure”, ha osservato che le “novellate prescrizioni del d. lgs. n. 59/2010 non appaiono più coerenti con la fonte sovraordinata, ovvero la direttiva europea n. 163/2006/CE” e “si pongono in violazione delle disposizioni costituzionali ed euro-unitarie”. Per cui ritiene il garante della concorrenza che il Comune di Roma “debba ricorrere allo strumento della disapplicazione delle norme nazionali per contrarietà con la disciplina e i principi di diritto europeo”. In relazione a tale pronuncia, la sindaca pro-tempore Virginia Raggi sospese il rinnovo delle autorizzazioni ai titolari di commercio ambulante romani. La questione, come prevedibile, non è finita lì, perché la categoria si sollevò effettuando scioperi e blocco del raccordo anulare; si innescò un braccio di ferro ancora in corso. L’ultima puntata di questa vicenda è la sospensiva del Consiglio di Stato (dopo sentenza del T.A.R. Lazio del 6 ottobre u.s. favorevole allo spostamento) al provvedimento del Sindaco di Roma che prevedeva la delocalizzazione degli ambulanti titolari dei posteggi a Via Cola di Rienzo (vedi). Siamo pertanto in attesa di conoscere cosa deciderà il giudice amministrativo di ultima istanza sulla materia.
Giuseppe Beato
Consiglio di Stato – sentenza n. 17.2021