Il T.A.R. del Lazio ha inferto un duro colpo alla riforma dei musei voluta dal Ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. Con due sentenze depositate ieri, i giudici hanno bocciato la nomina dei cinque direttori non italiani nominati nei super- musei nazionali”. Dario Franceschini ha dichiarato subito: “Il mondo ha visto cambiare in due anni i musei italiani. Non ho parole ed è meglio..”. Lasciando al lettore l’approfondimento della notizia (clicca qui l’articolo del Sole 24ore) qualche parola invece è il caso di dirla: I T.A.R. italiani si pongono ormai in un ruolo oggettivo di contro potere rispetto alle politiche e/o alle grandi scelte che compie l’Amministrazione pubblica. Ciò, prima ancora di tutte le disquisizioni tecnico-giuridiche del caso, é intollerabile. Un ordinato sistema amministrativo non sopravvive se tutte o quasi tutte le scelte strategiche adottate dalle amministrazioni pubbliche (concorsi, regolamenti, grandi gare d’appalto, nomine strategiche ) possono essere poste in non essere dalla pronuncia di una delle circa 30 circoscrizioni giurisdizionali di cui si compongono i Tribunali amministrativi regionali italiani. Qualcosa evidentemente non funziona nelle regole dell’Ordinamento.
In questo caso ci troviamo in presenza di un’iniziativa adottata da un Ministro della Repubblica nel contesto di una nuova politica pubblica generale dei beni culturali (vedi qui una nostra sintesi sulle sue linee guida) adottata con legge nazionale sulla proposta del Governo della Repubblica: una di queste fu, nello scorso anno 2015, quella di indire un bando internazionale per la funzione di Direttore dei 20 più importanti musei nazionali: ne sortirono 5 nomine di personalità internazionali che furono immessi in cariche dirigenziali pubbliche ( Vedi qui i nomi e le storie dei prescelti). L’apparente “originalità” di questa scelta -al di là delle immancabili disquisizioni giuridiche specifiche – non si pone in contrasto né con il principio del merito che deve presiedere alla nomina dei dirigenti pubblici , né al principio della selezione pubblica (concorso) che è sancito dalla Costituzione per impedire le nomine fiduciarie al comodo dei politici. A questo si aggiunga che l’apertura a esperti non italiani sta dentro la collocazione giuridica sovra-nazionale in cui il nostro Ordinamento giuridico é posto e conferisce un chiaro aspetto di sprovincializzazione della cultura nazionale, nell’ottica di un posizionamento internazionale dell’Italia come oggettivo faro di cultura e d’arte nel mondo.
E allora? Allora, ci troviamo in presenza di un sistema giuridico che consente a qualunque contro-interessato (a difesa di qualunque diritto o interesse legittimo personale) di ricorrere al giudice amministrativo di primo grado per richiedere l’annullamento di atti strategici costitutivi di fondamentali strategie di politica pubblica. Ecco, a questo punto, se qualcuno vorrà affermare che fortunatamente “c’è un giudice a Berlino”, noi rispondiamo tranquillamente che qui “c’è un giudice a Roccacannuccia“: ovverosia che il nostro sistema ordinamentale consente a un qualunque soggetto collocato in una delle diverse propaggini del sistema di innestare reazioni incontrollabili all’azione di un potere dello Stato; cioè è un sistema che genera e alimenta entropia continua. La possibilità di ricorso al Consiglio di Stato davanti a questa sentenza del T.A.R. ci riporta a un tema ormai ineludibile: l’esigenza che le scelte di politica pubblica e amministrativa di livello e di spessore nazionale-strategico siano riportate a un giudice unico, posto in grado in virtù della separazione dei poteri di operare/vigilare e decidere il diritto. Non è possibile frastagliare la democratica funzione di giudizio fra trenta entità giurisdizionali operanti ciascuna nella più piena indipendenza l’una dall’altra. Se l’indipendenza, infatti, è un principio istituzionale ineludibile, allora é necessario implementare un altro principio giuridico ugualmente basilare: quello della primazia delle sentenze approvate dalle Magistrature superiori. Onde evitare il pericolo dell’improvviso smantellamento di qualche cardine di una politica pubblica avviata dagli altri poteri dello Stato e, nel caso in esame, l’ennesima figuraccia che il nostro Paese fa rispetto all’opinione pubblica internazionale.
Ci piace aggiungere che il sistema federale statunitense conosce e utilizza un ulteriore sistema di valorizzazione e bilanciamento dei poteri: il cosiddetto Rule making (vedi qui approfondimento). In virtù di questo sistema, non solo le leggi del Congresso (Acts), ma anche i Regolamenti amministrativi adottati dalle Amministrazioni pubbliche hanno forza di legge, in virtù di una procedura articolata (prevista dall’Administrative procedure Act del 1946 -vedi) che contempla fral’altro la consultazione preventiva degli stakeholders e l’assenso finale del Congresso; in virtù del consenso del Potere legislativo, tali regolamenti (che minutano più specificamente le “regole del gioco”) ricevono forza di legge, eliminando con ciò stesso un volume considerevole di questioni sulle quali da noi é necessario chiedere la pronuncia di legittimità a un giudice. Il problema è che qui nessuno ha l’umiltà di studiare e riflettere sulle cose che fanno gli altri.
Pubblichiamo comunque il testo della sentenza in questione: alle pagine 25-27 sono esposti i due motivi ritenuti invalidanti dell’atto: il primo (punto 25) é un chiaro cavillo formale, con un fondamento fattuale accertato “de relato“, mentre il secondo punto (n. 26) sviluppa un principio giuridico ineffabile e sorpassato: lo riportiamo testualmente: “Il carattere “internazionale” è previsto dal primo periodo solo in relazione agli “standard” che devono essere perseguiti dal MIBACT in materia di musei (nell’esercizio della relativa potestà regolamentare a tal fine espressamente attribuitagli dalla norma stessa), ma non anche in relazione alle “procedure di selezione pubblica”, previste dal secondo periodo per il conferimento degli incarichi di direzione dei poli museali e degli istituti di cultura statali di rilevante interesse nazionale. ………..Se infatti il legislatore avesse voluto estendere la platea degli aspiranti alla posizione dirigenziale in esame ricomprendendo anche cittadini non italiani lo avrebbe detto chiaramente”….della serie “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit“…… La verità vera é che, con questa asserzione di principio, il TAR del Lazio si attesta esplicitamente sulla dottrina che Guido Zanobini formulò nel 1928, in piena epoca fascista, secondo cui: “…mentre al privato tutto è permesso salvo ciò che è espressamente vietato, alla pubblica amministrazione tutto è vietato eccetto ciò che è previsto dalle norme“.
Giuseppe Beato
Nota bene: va ostinatamente ribadito il carattere autonomo e libero da vincoli di “politica politicante” della nostra Associazione, che ha assunto posizioni fortemente critiche nei confronti di molta parte del cosiddetto “pacchetto Madia”, con argomentazioni strettamente ed esclusivamente attinenti al “merito” delle questioni. Per cui qualunque riferimento a un nostro atteggiamento pro-Renzi contro Renzi, pro-Franceschini contro-Franceschini, é da considerarsi fuori luogo.
sentenza TAR Lazio-n-6171-del-2017