Job Act e recupero del pensiero di Massimo D’Antona

Nel nostro Paese la materia del diritto del lavoro non trova mai pace, nonostante il principio posto dell’articolo 1 della Carta Costituzionale (“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”); non si è mai pervenuti a un assetto regolativo avvertito come “giusto” e ben funzionante. Addirittura il diritto del lavoro ha avuto i suoi martiri, solo a pensare a Ezio Tarantelli, a Massimo D’Antona o a Marco Biagi, assassinati a causa delle idee che professavano e difendevano.

Al pensiero di uno di questi martiri, Massimo D’Antona, si riferisce Tullio  Pirone nel suo articolo,  – pubblicato sul numero di agosto 2024 nella rivista “Il Previdente CISL” (vedila qui) – sulla normativa comunemente denominata “Job Act”, uno  della tante locuzioni superficiali con le quali vengono stabiliti  collegamenti fuori posto con esperienze istituzionali realizzate in altri Stati. L’autore, dopo un esauriente excursus sulle vicende che portarono alla regolazione contenuta nel decreto legislativo n. 23 del 4 marzo 2015,  si concentra sull’esame del suo criterio più famigerato, quello che, innovando alle previsioni contenute nell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970) modificò la regola della reintegrazione nel posto del lavoro in caso di licenziamento illegittimo, sostituendo la reintegrazione stessa con la possibilità, in caso di sentenza favorevole al lavoratore, di usufruire di un risarcimento in denaro pari a un certo numero di mensilità lavorative.

Troppo poco e gravemente punitivo il nuovo criterio solo a leggere i principio costituzionale enunciato all’articolo 4:  “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Siamo in grado di attualizzare quel valore che la Costituzione detta? Per il dr.  Pirone, dirigente INPS, la domanda è puramente retorica: l’erogazione di una somma di danaro non è sufficiente a ristorare il lavoratore  licenziato del bene prezioso del posto di lavoro ingiustamente sottrattogli. L’autore richiama in proposito una serie di sentenze della Corte Costituzionale che hanno circostanziato e denegato  valore e legittimità a una serie di aspetti legati alla regolazione presente nel “Job Act”.

Il tema della perdita del lavoro rimane malinconicamente irrisolto nel nostro Paese, forse anche per colpa della nostra scuola giuslavorista che – è questa una provocazione – insiste ad affrontare il tema del lavoro come un “oggetto in sé”, avulso da qualunque altra tematica di ordine produttivo ed economico. Il riferimento al diritto del lavoro come oggetto in se’ ha sempre impedito il collegamento con le problematiche legate al benessere delle imprese, non meno decisive per gli andamenti dell’economia nazionale e, da ultimo, proprio per la produzione e la crescita di nuove occasioni di lavoro. Una lettura del tema dell’occupazione che si “liberasse” da un pensiero strettamente giuridico sui diritti della persona, forse potrebbe allargare la vista a prospettive più ampie, capaci di influire positivamente proprio su quei diritti. Sicuramente il mondo accademico e giuridico si astiene aristocraticamente dall’andare a guardare/studiare quello che fanno gli altri! Sarebbe sufficiente capire (e adattare al nostro Ordinamento) ciò che si fa in Germania, dove la tutela ai residenti che si dichiarano disponibili al lavoro viene assunta dallo Stato che eroga un reddito di garanzia, incluso un sussidio per il canone d’affitto e per le spese accessorie, come i costi per il riscaldamento. Diversamente dalle recenti esperienze – anch’esse sommamente divisive – legate al reddito di cittadinanza, da noi non si risolve da decenni il tema del collegamento fra domanda e offerta di lavoro, fra scuola e occasioni di lavoro, fra sostegno alla disoccupazione e reintegro nella condizione lavorativa. Sono le “infrastrutture istituzionali”, i colleganti trasversali fra ambiti diversi a rimanere asfittici o inesistenti.

Giuseppe Beato

Job Act e Massimo D’Antona

 

 

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