Può apparire completamente fuori luogo parlare di “piccoli golpe” nei giorni in cui alle Olimpiadi di Tokyo l’Italia più bella e sana mostra a se’ stessa e al mondo la sua grandezza e il suo vigore morale e organizzativo. Può, inoltre, sembrare un attentato alla “ragion di Stato” criticare le leggi poste in campo dal Parlamento per consentire al sistema Italia di gestire al meglio l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Ma non si può tacere.
Nel corpo del decreto legge n. 80 dello scorso 9 giugno 2021, così come emendato in sede di conversione in Legge dai due rami del Parlamento (vedi qui il testo del decreto convertito in legge n. 113 del 6 agosto 2021 pubblicato sabato sulla Gazzetta Ufficiale) si annidano – ben nascoste in modo da sfuggire all’attenzione dei più – alcune modifiche dell’Ordinamento dell’impiego pubblico che niente hanno a che vedere con la necessità e l’urgenza di un decreto legge, ma che sono state inserite nel corpo di disposizioni d’emergenza perseguendo obiettivi ben diversi da quello di velocizzare l’attuazione del PNRR. In un certo mondo, annidato intorno al ministero della Pubblica amministrazione, si cerca di chiudere per sempre una partita aperta vent’anni or sono con l’emanazione di un altro numero 80, il decreto legislativo n. 80 del 31 marzo 1998 (ministro Bassanini), poi sussunto nel decreto legislativo n. 165 del 2001, infine sottoposto agli inserimenti successivi di innumerevoli “pezze” legislative.
Ci riferiamo precisamente alle disposizioni che toccano e stravolgono il regime ordinario della dirigenza pubblica e il regime delle carriere degli impiegati pubblici. Ambedue questi temi (di cardinale importanza) col PNRR entravano ed entrano come i cavoli a merenda.
IL RADDOPPIO DELLE ASSUNZIONI DI DIRIGENTI PUBBLICI SENZA CONCORSO.
In dispregio dell’articolo 97 della Costituzione, nonché – parimenti grave – dei sistemi di reclutamento di tutti i Paesi occidentali avanzati, una corrente di pensiero italiota, animata da certa dirigenza ministeriale – trentenne all’epoca della “riforma” della pubblica amministrazione degli anni ’90 e tuttora in sella in posti cardine – e da circoli accademici bocconiani, continua romanticamente a sognare che il rapporto d’impiego di un dirigente publico debba discendere da un mandato “fiduciario” del “datore di lavoro”, dimenticando sempre che il datore di lavoro nel pubblico impiego sono i politici – soggetti “di parte” per definizione – e che la Costituzione assegna proprio alla dirigenza pubblica la funzione di garanzia dell’imparzialità, che ha, a propria volta, come cardine fondamentale il reclutamento mediante concorso pubblico. Ostinati nel loro funesto credo e sordi ai richiami più volte esternati in 20 anni dalla Corte Costituzionale, questi personaggi sono riusciti in questi mesi a convincere i politici di turno (era facilissimo però!) che le risorse dirigenziali necessarie per dare sollecita attuazione al PNRR vadano reperite al di fuori della dirigenza di carriera, ritenuta incapace per definizione. Da qui la disposizione dell’articolo 1, comma 15, che prevede letteralmente che “Le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165, impegnate nell’attuazione del PNRR possono derogare, fino a raddoppiarle, alle percentuali di cui all’articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165″. Come noto ai cultori della materia, l’articolo in questione prevede l’assunzione senza concorso e a tempo determinato di profili professionali “non reperibili all’interno delle singole pubbliche amministrazioni” ad assoluta discrezionalità dei soggetti politici che li reclutano. Le percentuali in auge fino all’emanazione del decreto legge erano pari al 10% e 8% per i posti dirigenziali di prima e seconda fascia nei Ministeri e del 30% per i posti nelle amministrazioni comunali (vedi qui l’articolo 11 del decreto legge n. 90/2014, convertito in Legge n. 114/2014). Ciò significa che nei circa 8.000 Comuni italiani i sindaci e gli assessori potranno disporre a piacimento di un bacino dirigenziale (ed elettorale) pari al 60% delle risorse dirigenziali presenti nelle loro dotazioni organiche. E’ un bel raccontare del legislatore che questa misura ha carattere temporaneo fino al 31 dicembre 2026!…. Sicuramente, chi sarà stato reclutato senza concorso spenderà tutte le proprie possibilità, anche in termini di assoluta condiscendenza ai voleri dei vertici politici, per essere confermato dopo quella data. E comunque niente paura! La legge di conversione ha previsto una provvidenziale sanatoria: infatti l’articolo 3, comma 3 del decreto legge, nella versione emendata dal Parlamento prevede che “Una quota non superiore al 15 per cento (delle percentuali di reclutamento della dirigenza di carriera – n.d. r.) è altresì riservata al personale (interno non dirigente di carriera – n.d.r.) che abbia ricoperto o ricopra l’incarico di livello dirigenziale di cui all’articolo 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165″.
La prova, infine, che il decreto legge non abbia dettato una legislazione d’emergenza sta nell’articolo 4 comma 3, che modifica in via permanente l’articolo 28, comma 2, (accesso alla qualifica di dirigente) dello statuto degli impiegati pubblici. Qui si prevede che per i posti ordinari di carriera nei casi “in cui le amministrazioni valutino che la posizione da ricoprire richieda specifica esperienza, peculiare professionalità e attitudini manageriali e qualora le ordinarie procedure di interpello non abbiano dato esito soddisfacente”. In tali ipotesi “l’attribuzione dell’incarico può avvenire attraverso il coinvolgimento di primarie società di selezione di personale”. In tali casi “l’incarico non può superare il triennio e “non si applicano i limiti percentuali di cui all’articolo 19, comma 6”. Con questo viene conferito alle amministrazioni pubbliche (o meglio, ai politici di vertice delle amministrazioni) il potere di valutare con assoluta discrezionalità se immettere negli uffici pubblici, senza limiti percentuali sulle dotazioni organiche, dirigenti a tempo determinato senza concorso. E’ festa fatta alla dirigenza di carriera, al principio costituzionale del concorso pubblico e all’imparzialità della pubblica amministrazione.
Esagerato parlare di “piccolo golpe”? Comunque lo si voglia chiamare, è qui il caso di fare riferimento a quanto articolatamente esposto dal prof. Bernardo Giorgio Mattarella in un suo recentissimo articolo di commento alle previsioni di questi passaggi del decreto legge n. 80 (da lui definito “ad alto rischio di illegittimità costituzionale” – vedi qui)
Gli elementi di illegittimità e d’ingiustizia più clamorosi annidati nel decreto legge n. 80/2021, comunque, non finiscono certo qui!
LE PROGRESSIONI DI CARRIERA DEL PERSONALE PUBBLICO
Da che esiste l’organizzazione aziendale pubblica e privata, ci sono regole intrinseche di buona amministrazione che, per necessità di efficienza e di qualità, impongono, non solo di retribuire in modo consono le prestazioni lavorative, ma anche di strutturare le carriere dei dipendenti in modo diversificato in modo tale da collocare le diverse professionalità nelle caselle più consone in relazione ai titoli di studio e ai risultati lavorativi conseguiti nel tempo. Questo assorbimento di risorse individuali viene da sempre ottenuto attraverso un mix di reclutamento dall’esterno, contemperato con l’elevazione in aree lavorative superiori dei dipendenti più meritevoli; prima delle laudatiussime riforme degli anni ’90, nelle pubbliche amministrazioni questo mix di risorse esterne e interne veniva gestito attraverso concorso pubblici con riserva del 30% dei posti in concorso a personale interno munito del titolo di studio richiesto per un determinato livello di carriera. Questo principio trovava fino a ieri un certo riverbero in una disposizione di legge (l’articolo 52, comma 2, del d. lgs 165/2001, voluto dallo stesso Brunetta ministro della pubblica amministrazione nel 2009) che prescriveva che “Le progressioni fra le aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l’amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento“. Quella disposizione pose un limite all’andazzo, degno di Pulcinella, provocato dalla legislazione del decennio precedente, durante il quale si erano verificati transiti di massa interni dalle aree professionali inferiori a quelle superiori . Tuttavia, il limite (peraltro assai lasco) del 50%, collegato con il folle blocco dei turn over degli anni 2010/2019, provocò il blocco totale dei concorsi pubblici e il penoso innalzamento dell’età media degli impiegati pubblici. Con l’emanazione del decreto legge 80 gli oscuri topi nel formaggio si prefiggono l’obiettivo , non di far ripartire la macchina dei concorsi pubblici, ma di restaurare l’allegro teatrino precedente: con due colpi da maestri del cesello essi hanno travolto le regole fondamentali di buona amministrazione! L’articolo 3, comma 1, prevede infatti in via permanente – quindi fuori da qualunque “urgenza e necessità” – che “Fatta salva una riserva di almeno il 50 per cento delle posizioni disponibili destinata all’accesso dall’esterno, le progressioni fra le aree e, negli enti locali, anche fra qualifiche diverse, avvengono tramite procedura comparativa basata sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio”. Al posto di “concorso pubblico” c’è ora “procedura comparativa“. Non è finita: sempre l’articolo 3, comma 1, prevede che: “In sede di revisione degli ordinamenti professionali, i contratti collettivi nazionali di lavoro di comparto per il periodo 2019-2021 possono definire tabelle di corrispondenza tra vecchi e nuovi inquadramenti, ad esclusione dell’area di cui al secondo periodo, sulla base di requisiti di esperienza e professionalità maturate ed effettivamente utilizzate dall’amministrazione di appartenenza per almeno cinque anni, anche in deroga al possesso del titolo di studio richiesto per l’accesso all’area dall’esterno”.
Via i concorsi pubblici e via il titolo di studio per il personale interno!
Non siamo solo davanti a una questione di raffinati e astratti giochi giuridico-legislativi (la Consulta ha più volte dichiarato l’illegittimità costituzionale delle discipline legislative che prevedevano il passaggio a fasce funzionali superiori in deroga al principio del pubblico concorso), ma di fronte a qualcosa che tocca in profondità la pelle di tante donne e uomini. Come abbiamo diffusamente illustrato in un articolo di pochi giorni fa (vedi qui), queste regole legislative danneggiano gravemente i giovani laureati. Si offrono loro solo possibilità in posti non qualificati e, attraverso il meccanismo del reclutamento in posti a tempo determinato, viene resa lontana e aleatoria la prospettiva di assunzione in pianta stabile in una pubblica amministrazione in posti adeguati agli studi fatti. E non c’è da essere contenti nemmeno per le tante individualità di valore in servizio nell’amministrazione pubblica italiana: per loro c’è la prospettiva degli avanzamenti di massa, come usa da lustri, senza alcun riferimento al merito individuale e la sicurezza che le cosiddette “procedure comparative” saranno gestite ad usum delphini nel chiuso delle loro amministrazioni (attraverso indicibili ma note complicità). Il merito olimpico lo potranno assaporare solo per televisione.
L’accusa di incostituzionalità che si avanza nei confronti di questi articoli di legge surrettiziamente intromessi in una legislazione d’emergenza rientra, sia chiaro, in un giudizio di completa inadeguatezza della legislazione sull’amministrazione pubblica e sul pubblica amministrazione partorita negli ultimi trent’anni di storia della nostra Repubblica. L’Italia delle Olimpiadi di Tokyo, da tutti giustamente celebrata in questi giorni, non ha patria fra le mura delle nostre pubbliche amministrazioni; le enormi risorse umane, emerse anche nel periodo di pandemia, non hanno modo di trovare i giusti riconoscimenti, perchè la considerazione e la prevalenza del merito individuale e collettivo non abita fra queste mura. Un’altra Italia, quella delle corporazioni, della cattiva politica e del cattivo sindacato continuano a tenere in ostaggio la pubblica amministrazione di questo Paese. Lo fanno da trent’anni attraverso il monopolio delle leve della legislazione nazionale, come raccontato in modo illuminante nel volume “Io sono il potere” (2020, edizioni Feltrinelli), scritto da mano anonima.
Rimaniamo in attesa che il Parlamento e il Governo di questa Repubblica, con un nuovo sistema di regole aziendali/amministrative, rimettano al centro delle attenzioni gli interessi generali della collettività nazionale dei cittadini e delle imprese, che pagano tutti i servizi pubblici con le tasse e che vogliono una burocrazia amministrata con un sistema di regole completamente diverso da quello che emerge da questi colpi di mano legislativi.
Giuseppe Beato