“Amministrazioni parallele”: questo il modo di raffigurare la pubblica amministrazione italiana utilizzato dallo storico Guido Melis nel suo indimenticato saggio del 1988 (vedi qui “Due modelli di Amministrazione fra liberalismo e fascismo“): era la fotografia di un Paese che non riusciva, dall’Unità d’Italia in avanti, a configurare un modello omogeneo di governance degli uffici pubblici condiviso da tutti – politica, operatori dell’Amministrazione pubblica e cittadini. Reduci perenni dei conflitti fra guelfi e ghibellini, gli italiani di inizio XX secolo si dividevano fra fautori di un modello di Stato ipergarantista, occhiuto e rivolto solo al controllo della legittimità formale dei suoi atti e un “opposto” modello in cui far emergere nelle attività i requisiti di efficienza, di produttività e di orientamento al risultato utile. Perché, – diciamo noi – non sarebbe stato invece utile un modello di Pubblica amministrazione capace di contenere in sé tutti e due questi ordini di requisiti? Invece no!
La separazione in “amministrazioni parallele” ha trovato una sua riedizione nel secondo dopoguerra – e si trova ancora oggi incagliato in dannose e sterili contrapposizioni – da quando gli operatori, i politici e gli studiosi hanno iniziato a contrapporre al modello di “Amministrazione statale” – tutt’oggi permeato da forti connotazioni “garantiste” e “di legalità formale” e discendente diretto del “modello De Stefani” del 1923 – un modello di Amministrazione “partecipata”, libero dai vincoli burocratici delle Amministrazioni statali, più “vicino ai cittadini”, rappresentato dalla gestione delle Regioni e degli Enti locali. Fra le tante inutili guerricciole in cui si dibatte un’Amministrazione pubblica comunque inefficiente e in molte sue propaggini corrotta, si può agevolmente registrare la contrapposizione continua fra questi due modelli. E’ una contrapposizione ideologica – che vede i fautori del “modello statale” arroccati in una posizione sterilmente difensiva, cui si contrappone la schiera dei fans delle Autonomie locali, spesso dimentichi delle clamorose falle esistenti in quel sistema – che non manca di riverberarsi nei dibattiti pubblici e, quel che peggio, nelle disposizioni di legge, finanche nelle norme del Titolo V della Carta costituzionale, riformato nell’anno 2001: ne siano plastica dimostrazione il diluvio di conflitti di attribuzione che da allora sommerge quasi quotidianamente la nostra Corte costituzionale.
Noi ci chiamiamo fuori da questa disputa, osservando che “se Atene piange, Sparta non ride“. Ad una Amministrazione centrale generalmente incapace di contemperare le logiche normative e legali con l’esigenza prioritaria di gestire la macchina amministrativa in termini di predisposizione, impulso ed attuazione concreta delle politiche pubbliche dettate dal Parlamento e dal Governo, si contrappone il modello di gestione della cosa pubblica disegnato per Enti locali dalla Legge n 267 del 18 agosto 2000, con le sue molteplici successive modificazioni e integrazioni. E’ efficiente questo modello di amministrazione? E’ capace di rispondere alle esigenze dei cittadini e delle imprese? Pare di no, visto il plebiscito di critiche che arriva dall’opinione pubblica alla “pubblica amministrazione” intesa nella sua globalità.
L’analisi sulle numerose inefficienze delle Amministrazioni statali, cui anche noi abbiamo dato voce (vedi qui “le funzioni non svolte dai Gabinetti ministeriali” di Antonio Zucaro), va qui integrata con il contributo, ormai di cinque anni fa ma tuttora attuale, offerto dal prof. Mario Collevecchio, profondo conoscitore della PA centrale e locale per essere stato dirigente generale di Ministero, di Amministrazione comunale e tuttora Presidente del Comitato scientifico di ANDIGEL, l’associazione dei Direttori generali degli Enti locali. La sua onesta, coraggiosa e ineccepibile disamina sulla governance degli enti locali, effettuata in occasione del ForumPA 2010, metteva in evidenza come, nonostante una precisa regolazione di legge di tutto il circuito di Governance degli Enti locali (dal programma amministrativo del sindaco, alla Relazione previsionale e programmatica, al bilancio triennale, a quello annuale, per finire al Piano esecutivo di gestione per gli uffici comunali e ai controlli), nei fatti quasi nessun Comune è in condizione effettiva di governare l’attività dei propri uffici, abbandonati ad un’azione “alla giornata”, con il personale che “non sa bene cosa deve fare”, demotivato e frustrato.
Ascoltiamo la sua relazione al Convegno e le slide allegate. Ne traiamo, qui come in altri ambiti, una conclusione: nella crisi complessiva delle Amministrazioni pubbliche non esiste una visione e una valutazione d’insieme dell’Amministrazione pubblica italiana, non è presente nella mente di chi scrive le riforme un valido modello omogeneo, da adattare, con salvezza delle ovvie diversità di attribuzione e di “missione” dei vari uffici, a tutte le amministrazioni pubbliche. Un modello omogeneo e funzionante che risponda alle esigenze comuni di pianificazione elle attività, di buona organizzazione degli uffici , di valutazione delle politiche e delle performance organizzative e individuale, dei controlli. Ciascuna amministrazione pubblica procede sostanzialmente per conto proprio in un ginepraio asfissiante di regolazioni specifiche. Nessuna legge di riforma da trent’anni ad oggi si è posta l’obiettivo di regolare i minimi comuni denominatori che caratterizzano l’azione di tutti gli uffici pubblici. Ultimo esempio negativo, la recente Legge 124/2015, rivolta prevalentemente a “razionalizzare” gli uffici statali, pur con interventi significativi ma non d’insieme sulla dirigenza delle Regioni e degli Enti locali. Eppure gli impiegati civili dello Stato, delle Agenzie e degli Enti pubblici non economici nazionali sono solamente il 10% circa dell’intero corpo del pubblico impiego italiano (300.000 circa su 3 milioni e 200.000 circa) – vedi qui , mentre è impiegato nei Comuni, nelle Regioni e nel SSN il 40% circa del totale degli addetti (600.000 nelle Autonomie locali e 670.000 nel SSN). Una separatezza e incomunicabilità nelle filosofie di riforma che deve finire: c’è bisogno di un modello comune di riferimento, senza liste dei buoni e dei cattivi.
Giuseppe Beato
Intervento di Mario Collevecchio al Forum pa del 2010 – La governance degli enti locali
slide Prof_Mario_Collevecchio – La governance interna degli Enti locali: le ragioni dell’insuccesso.