Il professor Guido Melis ripropone sul sito IRPA (vedi qui) uno scritto di Luigi Einaudi, che traeva a sua volta spunto da un saggio di Cyril Northcote Parkinson, nel quale l’autore esponeva una sua teoria sulla “dilatazione artificiale dei tempi di lavoro” (diciamo così). Quale occasione preziosa per il presidente Einaudi di riferire tale legge alle burocrazie pubbliche che detestava cordialmente? Ma Parkinson si riferiva ad un atteggiamento burocratico generale, qualunque sia la natura (pubblica o privata) di una struttura organizzativa…….
Qui sotto la presentazione del prof. Melis e, in grassetto, il pensiero di Einaudi.
Cyril Northcote Parkinson è stato nel primo dopoguerra una figura molto nota. Nato a Barnard Castle, nel Regno Unito, nel 1909 (sarebbe morto a Canterbury nel 1993), fu principalmente uno storico navale, inizialmente militare di professione. Nei primi anni Cinquanta fu professore nell’University of Malaya appena fondata a Singapore, dove si occupò specialmente di storia locale. Fu nel 1957 (ma era intanto uscito nel 1955 un primo abbozzo sulla rivista “Economist”) che Parkinson pubblicò con l’editore londinese John Murray il saggio che lo avrebbe reso famoso: era una sorta di satira delle burocrazie di ogni Paese, accompagnata nell’edizione inglese (ce ne fu subito anche una americana) dalle illustrazioni del celebre cartonista Osbert Lancaster. E divenne subito un best seller. L’autore vi enunciava la cosiddetta “Legge di Parkinson”, nella quale il principio-base era che il lavoro burocratico cresce non in base a ciò che concretamente è richiesto di fare, ma in ragione dell’estensione del tempo a disposizione per farlo. Sicché, a parità di compiti da svolgere, più gli apparati burocratici si espandono, più tendono per loro spinta endogena a dilatare i tempi di lavoro, più cresce in conseguenza il personale impiegato e quindi più aumenta l’inefficienza della macchina amministrativa.
Luigi Einaudi aveva letto il testo di Parkinson poco prima di stendere la nota qui sunteggiata (se non in inglese, in italiano: Bompiani ne affidò la traduzione a Luciano Biancardi e la pubblicò nel 1959); e ne trasse subito spunto per una riflessione non priva di venature ironiche.
Come si risolve il problema del numero crescente dei capi delle amministrazioni di Stato?
Al di là di un certo numero di ministeri, nessun gabinetto funziona. Il Parkinson, il quale in qualità di professore di una università britannica di Singapore ha pubblicato or ora un volume, The Evolution of Political Thought[1], ne aveva prima scritto un altro (Parkinson’s Law or the Pursuit of Progress[2]) divertentissimo, nel quale l’autore inventa equazioni, intese a dare la necessaria dignità scientifica al fatto notorio, che da anni dico della scissiparità, ossia della autoctona spontanea moltiplicazione dei pani e dei pesci; ed i pesci sono gli impiegati, i commissari, i ministri.
Il numero dei ministri oscilla attualmente da 6 in certi piccoli paesi come il Lussemburgo o l’Honduras, a 35 in Jugoslavia, a 38 nell’Unione Sovietica, passando a 27 in Cuba e 29 in Rumania, che non paiono paesi di grande importanza. Le vicende inglesi nel numero dei ministri sono istruttive. Conosciuto col nome di “Lords of the King’s Council”, il gabinetto nel 1257 contava più di 10 membri; e per un po’ non si superarono gli 11. Il processo di scissiparità a un certo punto si riafferma: dai 20 del 1433, i consiglieri del re diventano 41 nel 1504; ma quando giunsero a 172, la turba dovette finire di radunarsi. Già prima, dentro il Consiglio del re, aveva dovuto essere costituito un consiglio minore, detto Privy Council”, composto in origine da 9 persone. Crebbe però (…) a 20 nel 1540, a 29 nel 1547, a 44 nel 1558. Anche il Privy Council diminuiva d’importanza a mano a mano che aumentava in numero, a 46 nel 1679, a 67 nel 1723, a 200 nel 1902. (…). A sua volta, verso il 1615, dentro il Privy Council si era formata una “giunta” di 8 membri, cresciuti a 12 verso il 1700 e a 20 nel 1725; e questo a sua volta prende il nome più succinto di “Cabinet”, ed è quello che esiste tuttora. [I suoi membri] erano 5 all’origine, diventarono 7 nel 1784, 12 nel 1801, 14 nel 1841, 16 nel 1885 e 20 nel 1900. A questo punto (…) pare ci si sia fermati: attraverso qualche variazione – 23 nel 1939, 16 nel 1945 – oggi il numero oscilla tra 17 e 18.
Esiste un numero ottimo per i ministeri? Il Parkinson propende per l’8, per la ragione, validissima ai suoi occhi, che quel numero non è usato oggi da nessuno degli Stati contemporanei. Non gli dispiace neppure il numero 10 che pare sia ancora preferito negli Stati Uniti, dove il numero di 5 del 1789, dopo essere giunto a 11 nel 1945, sembra per il momento mantenersi costante.
Luigi Einaudi, Coordinare, in Saggi italiani 1959 scelti da Moravia e Zolla, Milano, Bompiani, 1960, pp. 21-24 (la cit. è alle pp. 22-23).
[1] C. Northcote Parkinson, The Evolution of PoliticalThought, London, University of London Press, 1958.
[2] Id., Parkinson’s Law or the pursuit of progress, London, John Murray, 1957.