La questione del patrimonio on line dei dirigenti pubblici

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In quest’Italia che annaspa, invece di sperimentare vie costruttive per uscire dalla crisi si affonda in polemiche feroci che non approdano a nulla se non a una maggiore confusione e acredine reciproca fra ceti e categorie. La questione della pubblicazione sui siti istituzionali delle Amministrazioni pubbliche dei beni patrimoniali dei dirigenti pubblici vede protagonisti in questi giorni uno dei sindacati della dirigenza pubblica – l’UNADIS – vedi qui e parte della stampa nazionale in servizio di sciacallaggio permanente effettivo – vedi qui il Fatto quotidianoil Corriere della Sera. La pubblica denuncia e il ricorso al T.A.R. dell’UNADIS contro l’obbligo di legge hanno sortito un effetto mediatico opposto al buon nome dei dirigenti pubblici, che sono stati  accreditati in massa della volontà di occultare il possesso di automobili Ferrari e di castelli (sic).

A nostro avviso, c’è un aspetto fondamentale che emerge con forza da questa vicenda: che una politica sciatta continua a produrre leggi confuse, disordinate e generatrici non di sintesi ma di divisioni fra categorie e di quantità impressionanti di ricorsi giurisdizionali che potrebbero essere evitati con una minore trasandatezza. Va, infatti, ricordato che la norma che ha sollevato questo indegno polverone é parte dal decreto legislativo n. 97/2016 che pomposamente Governo e mosche cocchiere collegate hanno definito come il FOIA italiano. Il termine – notevolmente cacofonico e sufficientemente oscuro – sta per Freedom of Information Act che è la legge statunitense-  vedi qui – che mezzo secolo fa (1966) ha pacificamente sancito il diritto di “chiunque” a conoscere gli atti posti in essere dall’Amministrazione federale statunitense. Qui in Italia, un’inveterata schiera di epigoni di Alberto Sordi in “Un americano a Roma” scimmiotta, non solo a parole ma anche sui testi legislativi, una terminologia inglese che, invece, la legislazione americana ha saputo riempire di significato, di visione sistematica e di chiarezza e moderazione: la prima imitazione del FOIA – atto di grande civiltà giuridica, sia chiaro – é dello scorso anno 2013 quando il Governo Monti emanò il primo decreto legislativo in materia di “corruzione, pubblicità e trasparenza”: anche allora si parlò di “FOIA italiano” e si magnificarono gli effetti positivi che la “riforma” produceva. Perché allora, solo due anni dopo, il Parlamento (Legge  n. 124/2015 di “riforma” delle pubbliche amministrazioni) sente l’esigenza di delegare il Governo a modificare quella legge stessa, senza aspettare un tempo minimo affinché le norme lì contenute si sedimentino e diano i frutti sperati? Mistero gaudioso. Quel che è certo è che, come in tanti altri casi, i successivi rimescolamenti, le specifiche troppo insistite, gli scantonamenti in vere e proprie disposizioni provvedimentali effettuati sull’originario testo di legge hanno prodotto un appesantimento delle norme sulla trasparenza. In questo modo, l’atto fondamentale – la richiesta di un documento a una pubblica amministrazione da parte di “chiunque” – rischia di essere completamente vanificato, visto che é stato conferito agli uffici dal nuovo articolo 5 (si veda il suo testo allucinante – clicca qui)  l’obbligo di rifiutare l’accesso se arreca un “pregiudizio concreto” al “regolare svolgimento di attività ispettive”, nonché il compito di esaminare i molti casi di “obbligo di diniego”: ciò, non solo irrigidisce la procedura d’accesso agli atti facendola divenire un complicato iter burocratico, ma apre la strada ad ampi margini di responsabilità per quel funzionario che metta a disposizione atti sui quali sia rinvenibile da un controinteressato un obbligo di diniego.

Nel mezzo della torrenziale modifica di norme emanate appena tre anni prima é stata “infilata” (con la famigerata tecnica della “novellazione” che rende praticamente illeggibile qualunque legge della Repubblica) anche la disposizione (nuovo articolo 14) che rende obbligatorio anche peri i “titolari di incarichi dirigenziali – come prima per gli “organi di indirizzo politico” – l’obbligo di dichiarare per la successiva pubblicazione on line sul sito istituzionale non solo i “compensi, comunque denominati, relativi al rapporto di lavoro” ma anche “le dichiarazioni di cui all’art 2 della legge n. 441/1982“, cioè appunto le dichiarazioni inerenti alla situazione patrimoniale complessiva limitatamente al soggetto, al coniuge non separato e ai parenti entro il secondo grado, ove gli stessi vi consentano” . I legulei che hanno predisposto e sottoposto all’approvazione queste norme hanno dimenticato, o fanno finta di dimenticare, che la legge originale statunitense cui dicono di ispirarsi – che non è il “FOIA” ma l’Etchics in Government Act (vedi qui il testo originale) – prescrive sì ai dirigenti federali  l’obbligo di dichiarare il proprio asse patrimoniale, ma tutela anche la naturale riservatezza di quei dati evitando la loro pubblicità sui siti istituzionali, ma consentendo a “chiunque” (persone, associazioni, gruppi d’interesse, giornalisti) di attingere a tali informazioni e di farne l’uso legittimo che crede: c’è un abisso di differenza fra le due cose, perchè nel caso italiano il principio della trasparenza viene usato come una clava per sottoporre a una gogna mediatica i dirigenti pubblici, riducendo il web a “buco della serratura” dal quale si può curiosare sui fatti personali di altre persone.

A completare la frittata ci sono le linee guida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione – vedi criteri-Anac del 17-marzo-2017 – che ha stabilito una serie di esenzioni dall’obbligo di denuncia rivolte a dirigenti pubblici in caso di “ridotto grado di esposizione al rischio corruttivo“: sono questi i dirigenti scolastici, i titolari di uffici di diretta collaborazione agli Organi politici (sic), i sanitari delle AASSLL non responsabili di strutture semplici e complesse (in parole poverissime chi non è “primario” o responsabile di ambulatorio) e, dulcis in fundo, i dirigenti dei Comuni con meno di 15.000 abitanti, cioè a dire che la norma si applica per 743 Comuni italiani su circa 8.000 (vedi qui) ; quanto a dire che la quasi totalità dei dirigenti delle Autonomie  locali é esentata dall’obbligo in questione, dimenticando che molteplici casi di cronaca hanno evidenziato che “il grado di esposizione al rischio corruttivo” é identico anche nei piccoli comuni italiani. In questo modo si opera con l’ascia su materie che necessitano invece di strumenti fini di selezione e d’indagine e si alimentano ad arte divisioni, polemiche e rancori nella stessa categoria dei dirigenti pubblici.

Di questo inaccettabile pasticcio, di questa normativa sconclusionata e foriera di infinito contenzioso sono responsabili – va detto con grande chiarezza – da una parte, gli uffici governativi che predispongono gli atti normativi e, dall’altra, le commissioni parlamentari che rinunciano a quella funzione di sintesi degli interessi che dovrebbe caratterizzare l’attività politica e si fanno portatrici sane delle pulsioni occulte di questo o quel gruppo di pressione. Si cambi al più presto questa disposizione caporalesca e giacobina, partendo da un assunto di principio che dovrebbe trovare condivisione unanime: non sarà certo un tale codicillo a ridurre il livello di corruzione nel nostro Paese. Al contrario, l’adozione di disposizioni più equilibrate –  quali quelle in vigore in altri Paesi che a parole si prendono a modello – costituirebbe un atto di civiltà giuridica e di etica pubblica.

Giuseppe Beato

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