C’e’ qualcosa che non convince nella polemica non nuova sullo spoils system all’amatriciana: innanzitutto il fatto che sia appunto “all’amatriciana”! Va così impertinentemente definita questa forma di conferimento degli incarichi dirigenziali, perché fior di professoroni e politici – in maniera altrettanto impertinente – continuano a parlare di “spoils system” senza mai chiarire che questo termine non ha quarti di nobiltà anglosassone: in Inghilterra non è mai esistito e negli U.S.A., dove nacque, fu dismesso nel 1883, 140 anni fa, ed oggi è semplicemente sconosciuto.
Qui in Italia, come dappertutto, è giusto e necessario che i politici democraticamente eletti abbiano a disposizione una pubblica amministrazione che dia leale attuazione alle loro scelte politiche. Allora perchè sopravvive, a 75 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, la sterile guerricciola fra politici e dirigenza pubblica sulla definizione dei reciproci ruoli? Che sia una polemica ormai endemica lo dimostrano due circostanze incontrovertibili:
1. 25 anni fa gli ex ministri della Funzione Pubblica Cassese e Bassanini ingaggiarono una polemica dai contenuti identici a quella di questi giorni, di cui demmo conto su questo sito 6 anni fa ( si veda qui lo scambio polemico del 1998 , protagonista all’epoca anche il compianto Massimo D’Antona ). Nulla è cambiato di quelle antiche posizioni contrapposte, nella forma attuale di cui diamo conto qui in fondo; a riprova dell’immobilità di tutto un sistema;
2. il momento d’innesco dei ritorni periodici di questa polemica coincide sempre con i primi atti di governi nazionali da poco insediati e al loro primo approccio con le dinamiche di approvazione del bilancio dello Stato: scattano sempre polemiche feroci contro la Ragioneria Generale dello Stato, guardiano istituzionale dei conti pubblici (poveri noi se da sempre non ci fosse quel presidio a frenare gli appetiti voraci di partiti e corporazioni). Per non ammettere che si tratta solo di auri sacra fames e per non farsi mancare niente, la polemica si estende sempre da RGS al MEF nel suo complesso e, visto che ci siamo, alla dirigenza dei ministeri e di tutta l’amministrazione pubblica. Fu cosi’ nei governi dei primi dieci anni della cosiddetta seconda repubblica, fu cosi’ col governo Renzi che promise di passare con la ruspa sulla pubblica amministrazione e fu così con il governo giallo/verde con le dichiarazioni del noto statista Rocco Casalino (si veda qui).
Con il governo Meloni la musica non è cambiata: la Presidente del Consiglio ha espresso il suo pensiero in una recente conferenza stampa: “Credo che il rapporto tra la macchina burocratica e la politica sia fondamentalmente nella debolezza della politica. La macchina burocratica ha sempre guardato il ministro di turno come un passante e in molti casi ha preso il sopravvento….e’ augurabile una revisione profonda della legge Bassanini”. Revisione che, visto che fu Franco Bassanini da Ministro della Funzione Pubblica a introdurre il criterio della temporaneità predefinita degli incarichi, non può’ che essere un’estensione quantitativa delle sue regole di sostituzione degli incarichi ministeriali ai cambi di governo: dalla quarantina attuale a tutta la piramide dirigenziale, fino alla sua base.
La stragrande maggioranza del pubblico dei non addetti ai lavori capisce poco – non tanto della lotta di potere in corso fra politici e alti burocrati, che emerge chiara – quanto dei delicatissimi equilibri istituzionali di Stato democratico che questa contesa taroccata mette in moto. Per fare chiarezza è il caso di riferirsi proprio a quei modelli anglosassoni (ma è cosi’ anche negli altri più’ importanti Stati europei) dai quali si scimmiotta la terminologia di “spoils system”.
Lo schema di governance lì è semplice e lineare. Al vertice della burocrazia sono collocati i politici vincitori delle elezioni, i quali hanno titolo e ragione per scegliere/cambiare i vertici delle burocrazie a loro affidate. Al di sotto dei vertici burocratici, la piramide dei dirigenti e dei funzionari è STABILE e altamente professionalizzata: severissimi concorsi pubblici per farne parte, qualità professionali e manageriali per svolgere le funzioni assegnate SENZA limiti di durata prestabiliti e, ogni anno, valutazione delle performance individuali; senza il raggiungimento per due anni di seguito di livelli di eccellenza nell’uso delle risorse e nel conseguimento degli obiettivi c’è l’esclusione dall’area dirigenziale (si veda qui). I dirigenti pubblici sono obbligati ad operare in modo NEUTRALE politicamente (“sine ira et studio” predicava Max Weber, che per molti sembra essere il nome di un calciatore della Bundesliga). I vertici politici hanno il potere/dovere di fissare gli obiettivi e le strategie cui la dirigenza si deve attenere e sui quali sarà valutata, ma sono impossibilitati a “entrare nella gestione amministrativa”, magari spostando a piacimento i singoli da un incarico all’altro sulla base di “esigenze di fiduciarietà”. Infine – elemento cardine di sistema – c’è un meccanismo di “chiusura” che obbliga politici e dirigenti a operare osservando al meglio lo schema di divisione dei poteri previsto: la valutazione esterna di organismi indipendenti che operano a supporto delle assemblee parlamentari ( si veda qui per la Francia e per gli U.S.A.) che vigilano, indagano e valutano a beneficio dei parlamentari sulla qualità delle performance delle pubbliche amministrazioni nel loro complesso e sulla corretta attuazione delle politiche pubbliche: questi organismi indipendenti sono l’elemento di equilibrio indispensabile affinché i ruoli assegnati per legge siano osservati da tutti.
Gli intellettuali italiani – figli della cultura crociana e/o marxiana domestica, che credono di saperla più lunga di tutti e invece sono incredibilmente limitati nella visione – “fanno spallucce” rispetto al semplice schema sopra accennato, argomentando con una corbelleria: che quei principi vanno bene per altri Paesi, MA, per le caratteristiche intrinseche del sistema Italia, da noi bisogna ragionare in modo “particolare” (ultimo Tito Boeri, con le sue proposte strampalate che dimostrano che nulla ha compreso di amministrazione pubblica nei suoi cinque anni di presidenza INPS – vedi qui). Peccato dimentichino sempre tutti che i nostri Padri costituenti, quando scrissero gli articoli 97 e 98 della Carta, immaginarono la nostra pubblica amministrazione esattamente secondo il modello anglosassone ed europeo: stabilità della dirigenza, merito attraverso il concorso pubblico per TUTTI i livelli della burocrazia, imparzialità, servizio alla nazione. Ovverossia i principi che Gladstone introdusse nel Regno Unito (e nel Commonwealth) nel XIX secolo, che gli Stati Uniti adottarono nel 1883 con il Merit System e che i Paesi democratici europei fecero propri dopo le tragedie delle seconda guerra mondiale. Quanto a dire che le burocrazie degli Stati più avanzati tecnologicamente, in materia di libertà civili e democratiche e di giustizia sociale tengono nel massimo conto l’efficienza e i buoni equilibri delle loro burocrazie pubbliche.
Basterebbe “copiare” adattando.
Perchè, allora, non si adotta in Italia il modello tipo delle amministrazioni pubbliche occidentali avanzate? Eppure qui esistono fior di giuristi e di studiosi e il livello di intelligenza e di finezza è ovunque elevatissimo. La spiegazione vera, che solo in pochi si ha il coraggio di dire e scrivere, è che ai politici e ai dirigenti pubblici italiani le cose stanno bene così come stanno e le polemiche periodiche e gli ondeggiamenti legislativi sono solo una sterile guerra di pupi. I politici al governo (dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali) sono contenti di avere una dirigenza debole e asservita che consente loro, a fini elettorali, le frequenti incursioni nella gestione di appalti, licenze, autorizzazioni, convenzioni con imprese private; i dirigenti, per altro verso, in cambio dell’abbandono della posizione di autonomia gestionale e della mera sudditanza, si accontentano di uno status nel quale il posto è garantito, si percepiscono buone retribuzioni e la valutazione delle loro performance è una burla. E’ un compromesso al ribasso che non fa onore all’Italia, ma che vede oggettivamente alleati i due soggetti ai quali è affidata la burocrazia pubblica. Ciò dà lo spunto per osservare l’ultimo insegnamento che ci viene dall’estero: le grandi riforme amministrative sono state sempre realizzate con un ampio e convinto consenso delle classi dirigenti (pubbliche e private), al di là delle diverse posizioni politiche e hanno visto protagonisti i ceti riformatori, imprenditoriali e politici e le dirigenze pubbliche (ultimi esempi la riforma Gore/Clinton e la LOLF francese). Senza un solido consenso politico e una convinta adesione della dirigenza, qualunque disposizione legislativa di riforma sarà scritta sull’acqua.
E tutto rimarrà come adesso.
Giuseppe Beato
CASSESE una classe dirigente neutrale