Preceduto da lanci di stampa e da dichiarazioni stravaganti (del tipo “lo smart working resterà ma solo al 15 per cento“), ecco arrivare finalmente l’attesissimo (da Pietro Ichino) dpcm con il quale, senza tanti giri di parole, è stabilito che “la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa” per i pubblici dipendenti “è quella svolta in presenza”, con tanti saluti agli innumerevoli scenari progressivi sul lavoro agile (“smart working” per gli anglofili impenitenti) apparsi su giornali e riviste in questo lungo periodo di pandemia.
Eppure, le possibilità di lavoro produttivo da remoto costituisce uno dei pochissimi orizzonti positivi e benefici che il COVID 19 ha portato con sé. La necessità di far comunque marciare il lavoro d’ufficio ha dimostrato che, sia nelle imprese private che negli uffici pubblici, è possibile operare con efficienza coniugando impegno di lavoro e interessi personali/familiari. Il Lavoro agile è ormai una delle forme impiegate ordinariamente da aziende in tutto il mondo. Certo, si tratta di inquadrare questa rivoluzione copernicana dentro confini e regole nuove e da verificare nel tempo (si veda qui per esempio il documento che la Confederazione CIDA , rappresentativa dei dirigenti privati e pubblici, ha inviato alla Commissione Lavoro della Camera dei Deputati). Certo, si tratta di stroncare forme, anche estese, di furbizia per quella schiera di dipendenti che ha usato lo smart working come paravento di una lunga vacanza. Ma tutto questo rientra nella ricerca di modalità sane di gestione di uno strumento di lavoro che ora esiste e da cui non si potrà più prescindere.
Il ministro Brunetta, invece, sceglie la soluzione più comoda e conservatrice, quella del “ritorno alla normalità” , del “chi si è visto si è visto”. Un particolare illuminante del nuovo dpcm dello scorso 23 settembre è visibile nelle sue premesse: contrariamente alla prassi inveterata di citare tutti i precedenti dell’atto che viene emanato, non viene citato il decreto ministeriale emanato da Fabiana Dadone lo scorso 19 ottobre 2020 ( e successive integrazioni), né il decreto della stessa ministra del 9 dicembre 2020 con il quale si dettavano le linee guida per l’elaborazione dei Piani Organizzativi del lavoro agile (POLA) e indicatori di performance. Quei decreti recavano contenuti importanti per il progressivo inserimento del lavoro agile, dove fattibile, quale utile strumento di lavoro organizzato e per un ruolo cardine della dirigenza e dei sistemi di valutazione delle performance.
Ebbene di quei decreti non c’è traccia nelle premesse del decreto Brunetta. Si dirà che erano strettamente legati a situazioni di emergenza, ma ciò non è in riferimento al decreto sulle linee guida dei POLA. E allora? Un pensiero malizioso, da peccatori incalliti, ci sovviene ricordando che quei decreti avevano incontrato forti critiche da parte della triplice sindacale. Vuoi vedere che, a breve, usciranno nuove linee guida a firma Brunetta?
Giuseppe Beato
DPCM 23.9.2021 Brunetta smart working