Per inquadrare correttamente il contenuto e il senso della sentenza della Corte Costituzionale n. 251/2016 (vedi) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di parti rilevanti dello schema di decreto legislativo di “riforma” della dirigenza pubblica ( vedi qui il testo) é necessario fare riferimento sopratutto al testo dell’articolo 117 della Carta costituzionale (nella suo contenuto riformato con Legge Costituzionale n. 3/2001- vedi) e alla giurisprudenza che la stessa Corte ha prodotto nel corso del quindicennio successivo.
Riepilogando rapidamente, il testo dell’articolo 117 riformato – in un’ottica orientata a un riequilibrio del potere legislativo in favore delle Regioni – assegnava: a) una serie di materie specificamente definite alla potestà “esclusiva” del legislatore statale; b) una serie di materie anch’esse specificamente definite alla competenza “concorrente” dello Stato e delle Regioni (in cui “spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”; c) la potestà legislativa esclusiva alle Regioni per “ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato“. Tale competenza esclusiva delle Regioni é stata in seguito definita dalla giurisprudenza e dalla dottrina come “competenza esclusiva residuale” . Abbiamo pertanto nel nostro Ordinamento tre tipi di potestà legislativa “interna” (astraendo quindi dalle fonti di diritto internazionale e comunitario): a) potestà esclusiva dello Stato; b) potestà concorrente Stato-Regioni; c) potestà residuale esclusiva delle Regioni.
Al di là di qualunque considerazione di merito – che ha animato il dibattito sulla recente riforma costituzionale bocciata nel referendum dello scorso 4 dicembre 2016 – non vi è chi non veda che il testo costituzionale oggi vigente presenta elementi di complessità straordinari, che hanno sovraccaricato il lavoro della Corte Costituzionale, la quale, peraltro, ha elaborato una serie di criteri interpretativi in grado di orientare il lavoro degli operatori del diritto. In particolare, sulla definizione e sui limiti della potestà legislativa residuale delle Regioni, la Corte ha elaborato nel tempo una giurisprudenza consolidata (si veda in tal senso lo studio allegato di Francesco Pallante che riepiloga lo sviluppo dei principi interpretativi dei limiti e della portata concreta della legislazione residuale esclusiva, con annesso elenco a pagina 7 delle materie dichiarate con specifiche sentenze come inerenti a tale tipo di potestà – clicca qui).
Quale la connessione fra la legge n. 124 del 2015 “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” e le competenze residuali esclusive regionali? Molto semplice e chiaro fin dall’inizio: la riforma delle pubbliche amministrazioni con legge dello Stato andava (e va) ad incrociarsi con molte materie di potestà legislativa esclusiva regionale: due soprattutto : “l’ordinamento e organizzazione amministrativa regionale” riconosciuto con molteplici Sentenze (nn. 17/2004, 345/2004, 233/2006, 104/2007, 188/2007, 387/2007, 159/2008, 351/2008, 390/2008) e il “pubblico impiego regionale” (Sentenze nn. 380/2004, 189/2007, 95/2008).
In virtù di quali poteri, pertanto, lo Stato può intervenire in materie di competenza esclusiva regionale? Anche su questo punto due sentenze della Corte – ben note ai costituzionalisti – la n. 3 del 2003 (vedi qui) e la n. 6 del 2004 (vedi qui) stabilirono che – in base al principio della sussidiarietà dei compiti amministrativi previsto dall’articolo 118 Cost. – se una funzione amministrativa in una materia riservata alla competenza legislativa concorrente o residuale regionale viene attratta per esigenze unitarie nell’ambito delle competenze amministrative statali, possono passare allo Stato anche le connesse potestà legislative in quella materia, dal momento che, in base al principio di legalità, unitarie esigenze di carattere amministrativo necessitano di unitaria regolazione a livello legislativo. Le sentenze sopra nominate posero, tuttavia, un vincolo di rilievo costituzionale all’attrazione nella legislazione statale di materie riservate alla competenza concorrente o residuale delle Regioni: l’acquisizione di un’ intesa con le Regioni stesse: “per giudicare se una legge statale che occupi questo spazio sia invasiva delle attribuzioni regionali o non costituisca invece applicazione dei principî di sussidiarietà e adeguatezza diviene elemento valutativo essenziale la previsione di un’intesa fra lo Stato e le Regioni interessate, alla quale sia subordinata l’operatività della disciplina” (punto 4.1. della sentenza n. 303/2003).
L’attrazione di competenze legislative regionali nella potestà legislativa statale per esigenze unitarie, collegata all’indispensabile acquisizione di una preventiva intesa con le Regioni era quindi un principio costituzionale consolidato in via interpretativa da circa 13 anni. La sentenza n. 251/2016 qui in esame (pag.23) non ha fatto che ribadire il diritto del legislatore statale a “disciplinare in maniera unitaria fenomeni sociali complessi” e la necessità di preventive intese con le Regioni in applicazione del “principio di leale collaborazione Stato-Regioni” (vedi qui lo studio di Claudio Meoli – clicca qui) da acquisire con lo strumento delle Conferenze (sentenza n. 401 del 2007 – clicca qui).
In conclusione, la consolidata giurisprudenza costituzionale prevede da più di un decennio l’acquisizione dell’intesa di cui all’articolo 3 del decreto legislativo n. 281 del 28 agosto 1997 (vedi qui) fra Governo e i Presidenti delle Regioni e Province autonome sulle materie legislative – come quelle previste dalla legge 124/2015 – fatte oggetto di “attrazione” nella legislazione statale.
La domanda a questo punto sorge spontanea: per quale recondito motivo gli estensori della legge 124 e tutti soggetti (Commissioni e assemblee legislative di Camera e Senato) chiamati ad approvare i vari articoli hanno commesso un così clamoroso strafalcione giuridico prevedendo un “parere” e non “l’intesa” con i competenti Organi regionali nell’iter di predisposizione dei decreti legislativi delegati? In attesa di future ricostruzioni storiche circostanziate, qui avanziamo più semplicemente l’ipotesi che ciò sia stato determinato dalla stessa “arroganza istituzionale” che ha condotto a disattivare le funzioni delle Province e del CNEL prima che fosse compiuto l’intero iter costituzionale di abolizione di tali Organi! Cioè, nell’ignoranza dei più, i pochi che sapevano confidarono nell’idea che le modifiche introdotte al Titolo V della Costituzione dalla poi abortita riforma costituzionale avrebbero “sanato” ex post i vizi costituzionali degli articoli 11, 17 e 18 della Legge n. 124/2015. Peccato che la Sentenza n 251 sia stata pubblicata 10 giorni prima del Referendum costituzionale e che l’esito del referendum medesimo non abbia autorizzato le modifiche della Carta Costituzionale approvate dal Parlamento.
Non fu un “cavillo” la pronuncia della Corte, pertanto, ad avviso di chi scrive, ma un marchiano “sgarro” alla prassi costituzionale a guidare la mano dell’estensore della Legge n 124 dell’agosto 2015. Tuttavia, va sottolineata una circostanza ancor più significativa: con quel “cavillo” (o quello sgarro) – ammesso lo sia stato – la Corte si è liberata dal compito più penoso di occuparsi in futuro di tutta l’altra serie di “patologie” che rendevano incostituzionale il testo del decreto legislativo sulla dirigenza predisposto dal Governo, così come aveva già rilevato il noto parere del Consiglio di Stato del 14 ottobre 2016 ( vedi qui). Si è trattato, a convinzione di chi scrive, di una pietosa eutanasia resa dalla Corte Costituzionale a un testo di decreto che avrebbe causato la sicura bocciatura di uno studente universitario del primo anno all’esame di diritto costituzionale.
Al di là delle disquisizioni giuridiche, comunque, rimane sullo sfondo il vero nodo dell’intera questione della dirigenza pubblica italiana: se il dirigente pubblico debba essere in qualche modo “stabile”, oppure se, come fortemente sostenuto dal passato Governo e da tutto un folto mondo di “laudatores” del “modo privato”, debba essere un soggetto assunto a tempo determinato e di fiducia dei politici di turno al potere. L’opinione pubblica italiana è stata fortemente plasmata e convinta da questi “cantori” dell’impresa privata sul fatto che il rapporto di lavoro di un dirigente pubblico debba essere omologato a quello dei dirigenti privati. A nulla, per ora, valgono gli esempi delle Amministrazioni pubbliche degli altri Paesi avanzati, tutte organizzate su corpi di dirigenti stabili (in primis l’Amministrazione federale U.S.A., come illustrato nello studio apparso sull’ultimo numero della nostra rivista “Nuova Etica Pubblica” – vedi qui). Nè a qualcosa valgono i continui scandali che vedono protagonisti personaggi con la qualifica di dirigente, ma entrati in amministrazione senza pubblici concorsi e legati al carro del potente di turno. Una disattenzione intellettuale e politica verso questo tema troppo marcata e ostentata per non tradire un fondo di malafede.
Giuseppe Beato