Il nuovo Ministro della Pubblica Amministrazione, Fabiana Dadone, desta in noi simpatia. Nulla a che vedere con la sua collocazione politica, conta la persona: ha comportamenti ispirati a serietà, misura, rispetto, voglia di far bene senza strafare. Una distanza siderale dagli atteggiamenti della precedente ministra che trasudava indifferenza, supponenza e fastidio nei confronti di un mondo che – si vedeva chiaramente – considerava “alieno” (con relativi deleteri effetti in termini di legislazione proposta e votata dal Parlamento).
La direttiva della Ministra dello scorso dicembre 2019 di “Linee guida per la valutazione della performance individuale” – la si ripropone qui sotto – ha spunti di interesse: la prosa scorre in forma sufficientemente lineare, non indulge al barocco (come sempre, tuttavia, qualche inglesismo di troppo, perchè fa fino e, soprattutto, i più non capiscono e sono intimiditi) e cerca di proporre una direttrice comune in tema di valutazione per tutte le amministrazioni pubbliche italiane.
Lasciando la lettura del documento a chi sia interessato, per parte nostra riteniamo utile riproporre le nostre ormai tradizionali considerazioni – che valgono anche per questo documento – in merito a una materia che, non si dimentichi mai, è presente nella legislazione amministrativa pubblica italiana da più di trent’anni, ma ha prodotto risultati pari alla montagna che partorisce il topolino (fra i tanti interventi , riproponiamo il link al nostro “Basta con le valutazioni burla” dell’ormai lontano anno 2015).
Il punto vero di caduta di tutte le tentate riforme, vale anche per la materia della valutazione, é che non è sufficiente intervenire su un’attività con leggi e circolari, dettando solamente le “regole del buon procedimento”, a mo’ di un manuale per le giovani marmotte; sulla valutazione sono piene intere librerie contenenti metodi e soluzioni ottimali, in tutte le latitudini possibili: sarebbe sufficiente adottare quella che venga ritenuta più consona. Ma consona rispetto a cosa? Se si omette o si dimentica di collocare la materia da regolare nel contesto di un ragionamento di sistema – investendo non solo sulle “regole di procedimento”, ma anche e soprattutto sugli attori chiamati ad applicarle – si fa solo e sempre dell’accademia. La valutazione delle performance continuerà ad essere materia inattuata fino a quando – é il caso anche di questa direttiva ministeriale – non saranno chiari, definiti e regolati alcuni punti cardine. Ne ricordiamo alcuni:
- Si crede veramente che le regole di valutazione per tutte le amministrazioni pubbliche italiane (Ministeri, enti ec agenzie pubbliche, Regioni, Comuni) possano essere dettate attraverso direttive che, sul piano della “cogenza” giuridica hanno solo valore di “moral suasion“? Che vincolo, in termini di obbligo, sussiste in capo alle varie singole amministrazioni nei confronti di queste linee guida? Esistono modalità di vigilanza/controllo sulla loro applicazione coerente? Esistono incentivi o disincentivi rispetto agli atti poi posti in essere dalle amministrazioni (come usa negli altri Stati occidentali avanzati). No, non esistono e chi afferma il contrario mente! Avremo mai un governo della Repubblica capace di istituire un’Autorità indipendente per la valutazione, in grado non solo di dettare le regole generali, ma anche di farle osservare? Fino a quando sarà assente un’entità di questo tipo (fuori da condizionamenti politici), le indicazioni di massima rimarranno sempre sul piano delle ottime intenzioni, lasciando libera qualunque amministrazione, ove voglia, di misurare le performance, in termini di “fotocopie fatte” o di “protocolli fatti” e altre simili improntitudini.
- Le linee guida del dicembre scorso si avventurano in una distinzione fra “performance individuali” e “performance organizzative“, ma tale distinguo viene operato (pagg. 10 e seguenti) con un puro intento “difensivo” (non sia attribuito al dirigente ciò che pertiene al suo personale e viceversa). Il punto vero è un altro: che già il “decreto Brunetta” (vedi qui d. lgs. n. 150/2009, art. 4, comma 2, lett. d)) pose le basi di un fraintendimento clamoroso: spostò col concetto di “performance organizzativa” – termine di riferimento interno a una singola amministrazione – il focus legislativo dalla valutazione della “performance” esterna, quella vera e visibile dall’utenza. Chi sia dia conto di studiare il sistema di valutazione dell’amministrazione federale U.S.A. (vedi qui) vedrà con chiarezza che ai cittadini e alle imprese interessano pochissimo i risultati produttivi degli uffici interni di una PA (cosiddetti output), ma sono fortemente interessati alla valutazione dei risultati finali cui perviene una pubblica amministrazione considerata come un tutto (cosiddetti outcome) . La previsione di questo tipo di valutazione è completamente assente nella legislazione italiana ed i motivi ci appaiono chiari: una seria ed effettiva valutazione di questo tipo coinvolgerebbe non solo impiegati e dirigenti, ma anche i vertici politici, nella loro capacità (o meno) di emanare linee guida efficaci e di organizzare i servizi. Le valutazioni organizzative e individuali in un sistema amministrativo serio, non “vivono” da sole, ma rappresentano l’ovvia conseguenza della valutazione dei risultati generali conseguiti da un’amministrazione.
- Chi controlla le performance organizzative e individuali rese all’interno di un’amministrazione? Anche qui il decreto Brunetta (mai modificato seriamente) inserì una fictio (eufemismo) prevedendo per ciascuna amministrazione pubblica un “Organismo Indipendente di Valutazione” (OIV) che di indipendente ha solo il nome: come già argomentato in passato (vedi qui), risulta perlomeno stravagante pensare che una triade di esperti nominati e retribuiti dai vertici politici di ciascuna singola amministrazione possa avere (al di là del profilo morale dei singoli, che qui non è assolutamente in discussione) quell’autonomia e terzietà che solo un organo di controllo esterno può avere: qui sono in ballo gli interessi e la tutela dell’utenza, non quelli dei controllati.
- dulcis in fundo, il ruolo dei sindacati nei sistemi di valutazione: la loro facoltà di intervento in sede di contrattazione collettiva è riconosciuta per legge (vedi qui l’articolo 40 del decreto legislativo n. 165/2001, ultima novella) in ordine “alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio“, il che implica anche l’utilizzo della leva contrattuale (non di confronto, si badi bene) in ordine ai criteri di valutazione, sia quelli generali che quelli adottati in ciascuna singola amministrazione. Qui ci sembra inutile girare intorno al problema: la valutazione, per sua sostanza intima, non è materia che possa vedere coinvolti i sindacati in un ruolo che è oggettivamente di cogestione: se io contratto i sistemi di valutazione, sto cogestendo una delicatissima e strategica funzione amministrativa. Non sembra assolutamente questo il ruolo del sindacato, prezioso quando si concentra sulla tutela e, quando necessario, sulla denuncia e agitazione in caso di diritti violati del personale, ma non quando, invece, opera da attore nel campo della valutazione. L’essenza stessa degli atti di valutazione consiste in meccanismi di funzionamento di tipo selettivo. Non è questa, invece, né può essere questa l’ispirazione profonda delle funzioni svolte da un sindacato dei lavoratori: questo, per sua natura, salvaguarda gli interessi individuali dei propri assistiti e quelli generali delle categorie rappresentate, senza necessità di preoccuparsi di aspetti organizzativi, di pertinenza dell’amministrazione. Non può, pertanto, occuparsi di procedure selettive; se lo fa, è portato inevitabilmente a orientarsi verso altri obiettivi (quelli suoi sindacali, legittimi e giusti che consistono nella migliore e più estesa tutela possibile dei propri associati) che, tuttavia, non corrispondono agli obiettivi di efficienza e di razionalità selettiva insiti nella valutazione. Quando ciò accade – ed in Italia avviene sempre e dovunque – l’indebita e impropria cogestione provoca danni al buon andamento di un’amministrazione. Di qui, proprio di qui, discende la stortura più clamorosa della valutazione in Italia: da più di trent’anni le valutazioni, in un modo o nell’altro – i “marchingegni” possibili sono infiniti – si caratterizzano come valutazioni ottimali (o quasi ottimali) assegnate a pioggia a tutti (o quasi tutti, ove si presentino casi isolati e indifendibili) gli impiegati. Ma è la dirigenza, dicono in molti, che deve “avere il coraggio” di scegliere! Sì, sì, provate voi in un contesto di debolezza strutturale, di convergenza di interessi fra politica e sindacato (vedi qui un nostro articolo che descrive tali meccanismi), di spoils system arrembante, ad ergervi a paladini della valutazione rigorosa e selettiva! Sarete travolti, come i (pochi) dirigenti pubblici che ci provano. A coloro che accolgano con “stupore” o, peggio, ritengano le considerazioni precedenti come atto di lesa maestà, consigliamo la lettura di un articolo del compianto Carlo Dell’Aringa, uno dei padri della contrattazione collettiva, che, un anno prima di lasciarci, giungeva deluso ad identiche conclusioni (vedi qui il suo saggio pubblicato nell’anno 2018). Anche su questo tema scottante, in conclusione, non è questione di belle parole e di previsioni astratte e virtuose, ma di come si regola per legge il sistema complessivo, con riferimento ai vari attori in campo.
Giuseppe Beato
VALUTAZIONE – LINEE GUIDA del Ministero della Pubblica Amministrazione