Nella varia paccottiglia ad uso propaganda che il Ministro della Pubblica Amministrazione in carica ha ritenuto di inserire nei due disegni di legge sulla pubblica amministrazione (vedi qui atto Senato n 920 -B e atto Senato n. 1122 ) è inserita fra l’altro una normettina che riesuma una figura spettrale del passato: il testo unico del lavoro pubblico!
Ohibò!….Ma non sono intervenuti nei trascorsi 20 anni già 3 (tre) tentativi di elaborare un testo unico, tutti e tre chiusisi con un perfetto fallimento? Immemore di tutto ciò, l’attuale Governo ritorna alla carica e sottopone all’approvazione parlamentare la seguente disposizione di legge: art. 1, comma 1: “coordinare le disposizioni vigenti in materia di pubblico impiego apportando le modifiche necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa, anche attraverso l’elaborazione di testi unici”.
Per chi sia appassionato di questa materia giova ricordare che la giurisprudenza antica e consolidata della Corte Costituzionale (vedi qui sentenza n. 54 del 1957) distingue fra testi unici “di mera compilazione” (che traggono la forza di legge dalle disposizioni legislative cui fanno riferimento) e testo unico “emanato nell’esercizio di poteri legislativi delegati” che hanno in sé forza e valore di legge e sono, pertanto, dotati di una potestà innovativa della legislazione precedente. Nel nostro caso il testo unico previsto appartiene a quest’ultima categoria. Di conseguenza merita una trattazione affatto particolare, che si è tradotta – nei tre precedenti tentativi – nel lavoro preparatorio di commissioni di studio appositamente nominate. E’ appunto su queste vicende che si è concentrato il seminario tenuto alla LUISS di Roma lo scorso 11 maggio 2019, tenuto da coloro i quali furono protagonisti a vario titolo dei tre precedenti tentativi di emanare un testo unico del pubblico impiego. Pertanto i loro interventi e testimonianze assumono un rilevante valore storico per comprendere logiche e dinamiche che hanno caratterizzato i precedenti iter preparatori ( anni 1999/2000, 2009/2011 e 2016) sempre conclusisi con la mancata adozione di un decreto legislativo finale.
Preminente, ci pare, la ricostruzione storica effettuata nell’introduzione dal dr. Valerio Talamo (dirigente generale del Dipartimento della Funzione Pubblica), presente in tutte e tre le commissioni di studio sopra ricordate. Oltre agli articoli pubblicati all’epoca del primo tentativo di emanare un testo unico (vedi qui gli interventi sulla rivista “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni”), Talamo ha ricostruito l’iter dei tentativi successivi, lanciando infine una domanda formalmente accademica, ma in realtà giustamente provocatoria : “Serve veramente un testo unico del lavoro pubblico?”. Fondamentale ai fini della risposta a tale quesito i successivi tre interventi del prof. Stefano Battini (presidente della Scuola Nazionale dell’Amministrazione), dr. Sergio Gasparini (presidente dell’ARAN) e dr. Bernardo Polverari (già Capo di Gabinetto di Marianna Madia, ministro pro tempore della Pubblica Amministrazione). Tutti loro furono componenti della commissione di studio per l’elaborazione del Testo unico sul pubblico impiego (terzo tentativo). In modo composto, educato e a volte ironico, tutti e tre – pare a chi scrive – hanno dato una risposta sufficientemente indicativa al quesito posto da Valerio Talamo: Battini ha concentrato il suo intervento sulle linee di intersezione fra un eventuale testo unico e tutta la normativa “circostante” (disposizioni precedenti sulle quali opera la forza innovativa del Testo Unico, disposizioni sulla scuola, disposizioni sul servizio sanitario nazionale, disposizioni legislative regionali, disposizioni sugli ordini professionali, disposizioni sul precariato, disposizioni per i dipendenti di amministrazioni NON comprese nella normativa generale, cioè Prefetture, Ambasciate, Militari, dirigenti penitenziari), tali da rendere quantomeno problematico l’inserimento di un testo unico in questa congerie di norme. Gasparrini ha rinforzato il carico ricapitolando tutte le problematiche connesse alla “coesistenza” fra fonte legislativa e fonti contrattuali. Forse, tuttavia, l’intervento più “definitivo” è stato quello del dr. Polverari, il quale – fuoriuscendo da un’analisi puramente giuridica – ha rievocato sul piano politico-fattuale quali furono i motivi che indussero l’allora Ministro della Pubblica Amministrazione Marianna Madia a NON procedere alla presentazione in Consiglio dei Ministri del testo che era stato predisposto dalla commissione di studio della quale gli oratori facevano parte.
Questi contributi storici e giuridici vanno assolutamente ascoltati. Sono sufficienti, a parer nostro, per dedurre chiaramente che l’ennesimo tentativo di predisporre un testo unico del pubblico impiego sia un tempo totalmente perso. Sull’intera questione grava un equivoco di fondo, ancora non chiaramente presente agli operatori giuridici di questa materia: si tenta da 20 anni di creare un “testo unico” del lavoro pubblico nella (malcelata) nostalgia dei vecchi e vituperati testi unici del pubblico impiego (TU n. 3/1957, per capire!) che traevano logica e ragione, tuttavia, proprio dalla loro dimensione di separatezza dalla normativa dell’impiego privato che il decreto legislativo n. 165/2001 ha travolto!!…. dopo il d.lgs n 29/1993, l’omologazione della disciplina del lavoro pubblico a quella del diritto privato ha introdotto GLI STESSI PRINCIPI esistenti in campo privato, che sono i seguenti: fondamenti giuridici generali presenti nel codice civile, ulteriore spazio normativo demandato ai contratti collettivi di lavoro, presenza, ove il legislatore ritenga, di una serie di disposizioni legislative a sé stanti (basti ricordare lo Statuto dei lavoratori, le norme sul lavoro determinato, le norme sul lavoro agile e così via citando) che hanno per oggetto situazioni, fattispecie e realtà ritenute meritevoli di regolazione separata. Il lavoro privato NON HA un testo unico (a meno di non voler erroneamente considerare come tale il codice civile!!…ma in questo caso l’autorità del codice civile abbraccia anche il lavoro pubblico, come esplicitamente previsto dell’articolo 2 del 165).
Ma, così ci pare di poter concludere, tutte queste discussioni girano sempre intorno a un tema di fondo, sul quale in pochi oggi osano schierarsi: se sia stata cosa buona la privatizzazione (o contrattualizzazione che dir si voglia) della normativa sul pubblico impiego: noi come associazione Nuova Etica Pubblica abbiamo espresso chiaramente il nostro pensiero negativo (vedi qui il documento ufficiale e un articolo sulle “carenze del sistema del lavoro pubblico privatizzato“). Forse è giunta l’ora di dismettere giudizi ormai antiquati sulla “natura antidemocratica, gerarchica e autoritaria” di una regolazione separata del lavoro negli uffici pubblici e, soprattuto, favorire la comprensione serena del fatto incontestabile che la riforma della pubblica amministrazione NON passava dalla privatizzazione del lavoro pubblico, ma da tutt’altre misure, fino ad oggi mai adottate.
Sulla “democraticità” di un regime legislativo separato del pubblico impiego valgano semplicemente i riferimenti a Stati che non paiono esattamente come regimi dittatoriali quali la Francia, la Germania, l’Inghilterra e, soprattuto, gli Stati Uniti (vedi qui il titolo V del codice delle leggi U.S.A.).
Giuseppe Beato
VIDEOREGISTRAZIONE DEGLI INTERVENTI AL SEMINARIO
Valerio Talamo: la storia dei tre tentativi di emanare un TU del lavoro pubblico;
Sergio Gasparrini: il movimento pendolare fra fonti legislative e fonti contrattuali;
Bernardo Polverari: rievocazione dei motivi politici della non emanazione del testo unico;
Bernardo Mattarella: conclusioni molto sintetiche.