La rassegna che stiamo conducendo sugli scritti più significativi riguardanti la cosiddetta “privatizzazione” (per altri “contrattualizzazione”) della pubblica amministrazione (vedi qui le testimonianze sugli esiti mancati di quella riforma) sarebbe monca in radice senza la riproposizione di un famosissimo scritto di Massimo D’Antona: ”la seconda privatizzazione del pubblico impiego nelle “Leggi Bassanini” – clicca qui. L’articolo, comparso sul numero 1 di gennaio-febbraio 1998 della rivista “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni” – fondata da lui, Franco Carinci e Gaetano D’Auria – risale all’anno precedente al suo assassinio per mano delle sedicenti “Brigate rosse” (accolita di folli paranoici con la nostalgia della “rivoluzione” e l’odio per i riformisti come D’Antona, complici oggettivi – chissà se non consapevolmente collegati – di chi le riforme vere non le voleva, non le ha mai volute e non le vorrà mai).
Lo scritto in questione deve essere considerato come “storico” non solo perché fu uno dei suoi ultimi contributi teorici, ma anche perché opera di colui che – da Direttore generale dell’Ufficio Relazioni sindacali del Ministero della Funzione pubblica, Ministro Franco Bassanini nel Governo Prodi (1996-1998) sovraintese alla scrittura materiale delle disposizioni della legge-delega n. 59/1997 (vedi qui), nonchè dei suoi decreti attuativi (n. 396/1997 – vedi – n. 80/1998 – vedi – n. 387/1998 – vedi (senza tralasciare la legge n. 127 del maggio 1997), a coronamento del lavoro svolto da una Commissione mista composta dal Governo e dalle Rappresentanze dei Sindacati.
Come pendant quasi naturale dell’articolo sopra citato uniamo un altro scritto, di 10 anni successivo – di Franco Carinci – suo amico e principale collaboratore nell’opera di trasformazione “definitiva” del regime giuridico dei lavoratori pubblici: “Massimo D’Antona e la “contrattualizzazione” del pubblico impiego: un tecnico al servizio di un’utopia” (clicca qui), un ricordo e un contributo di conoscenza diretto sui processi – mentali, giuridici, storici e politici – che portarono all’introduzione nel nostro Ordinamento della privatizzazione del rapporto d’impiego.
Nei loro “dialoghi” sulla riforma i due Autori amici – pur con una retorica che nulla concede ai toni autocelebrativi (ciò li ha uniti anche dopo la morte di uno dei due) – non riescono tuttavia a dissimulare un orgoglio e una soddisfazione per “il lavoro svolto” che traspaiono praticamente in ogni riga dei loro scritti.
E in effetti ciò che accadde negli anni ’90 ha del “rivoluzionario”: la “miccia” accesa in tempi remoti da Massimo Severo Giannini nella voce “pubblico impiego” scritta per l’Enciclopedia del diritto nell’anno 1970 (vedi qui), proseguita con due passaggi altrettanto epocali – lo scritto “L’impiego pubblico in Italia” di Mario Rusciano nel 1978) e il Rapporto Giannini sui principali problemi dello Stato del 1979 (vedi qui), esordisce nel mondo del diritto positivo con la legge quadro del pubblico impiego n. 93 dell’anno 1983, si “insedia” con l’emanazione del decreto legislativo n. 29 del 1993 e , dopo il “via libera” della Corte costituzionale ( vedi sentenze n. 313 del 1996 e n. 309 del 1997), si traduce nella “distruzione” e capovolgimento (una sorta di presa del Palazzo d’Inverno per chi di loro aveva “sacre memorie de sinistra”) di un istituto giuridico esistente dagli inizi del ‘900: il rapporto di pubblico impiego regolato con speciale regime giuridico di diritto pubblico, separato dal diritto del lavoro comune dei lavoratori privati.
D’Antona parla del “secolo breve …che ha visto – attraverso l’ultima fase dello stato liberale, il periodo fascista e una parte non breve della vita della Repubblica il monopolio dello Stato centrale, del suo livello di Governo, del suo modello di amministrazione”. Il successo di un’operazione di tale portata istituzionale (che, come scrive Carinci, “non trova corrispondenza per estensione in nessuna altra esperienza europea”) fu favorito da un contesto storico particolare e preciso che caratterizzò gli anni ’90 del secolo scorso. Ne ricordiamo le linee profonde con pochi accenni: a) il processo di crescita civile del Paese che aveva visto le lotte dei lavoratori per una dignità e qualità del lavoro e il ruolo dei sindacati e che si era felicemente dipanato attraverso l’immissione nell’Ordinamento del lavoro privato italiano dello statuto dei Lavoratori, unanimemente considerato come legge di alta civiltà sociale e giuridica; b) il crollo della prima repubblica e con esso la fine della conventio ad excludendum dal governo del Paese delle forze politiche della sinistra; c) il conseguente slancio riformatore del primo Governo dell’Ulivo a Presidenza Prodi; d) la valutazione (giustamente) negativa che si fece sulla staticità e inefficienza della pubblica amministrazione, con la conseguente critica al sistema di regole amministrative pubbliche “speciali” del lavoro che fino a quel momento l’aveva sostenuto. Contribuiva a questo atteggiamento di distacco “dal pubblico”, non solo il pensiero di Massimo Severo Giannini e dei “privatizzatori”, ma anche le correnti di pensiero internazionale allora in voga che, attraverso le teorie del New Public Management, predicavano un forte ridimensionamento del “recinto pubblico” con cui gestire il welfare State e) da ultimo, incideva un fattore atavico tutto italiano, consistente in un radicata diffidenza delle coscienze nei confronti di tutto ciò che è “pubblico”: questa diffidenza profonda trovava concretezza di pensiero nell’idea che nelle realtà amministrative ciò che è “privato” sia comunque preferibile al “pubblico”: lungi dall’essere solo un diffuso “sentimento popolare” quest’idea (fuorviante e nociva, secondo chi scrive qui) venne chiaramente espressa anche da Massimo Severo Giannini in uno scritto del 1957 (“In principio sono le funzioni” (vedi qui): ”contenere l’azione dei pubblici poteri in base al presupposto che là dove i poteri non pubblici fanno, agiscono sempre meglio di quelli pubblici”. Qui c’è una questione fondamentale: una cosa è mutuare nel pubblico tutti quegli strumenti del management privato che siano utili a una maggiore efficienza e qualità dei servizi oppure valutare criteri di ripartizione fra ciò che può essere gestito in regime pubblico e ciò che può essere affidato ai privati; altro, totalmente altro, è indicare una scala di valori in base alla quale il “privato” è comunque “migliore” del “pubblico”: questo concetto è errato in radice, “infiniti lutti addusse agli Achei” e in nessuno degli Stati avanzati ad economia di mercato qualcuno si sogna mai di fare questo raffronto: ma ci torneremo più avanti.
Fatto sta che i riformatori del primo governo dell’Ulivo procedettero senza esitazioni ad attuare un disegno che il D’Antona splendidamente raccontato da Franco Carinci sintetizza così : «Uno Stato “ diverso” che si fa più leggero e si avvicina ai cittadini; che attua il principio di sussidiarietà e costruisce il centro in funzione della periferia, riconoscendo ampiamente l’autogoverno e l’auto-amministrazione delle comunità locali, che è decentrato e deconcentrato per quanto attiene alle funzioni amministrative finali; forte al centro quanto a capacità programmatorie e di indirizzo; organizzato al proprio interno con moduli differenziati su base funzionale e secondo norme di lavoro comuni al settore privato; che non tradisce l’impegno di proteggere i cittadini dal bisogno economico e di assicurare a tutti alcuni servizi essenziali, ma che preferisce ogni volta che sia possibile agire come regolatore di soggetti privati efficienti, piuttosto che come soggetto erogatore in forma diretta» (Stato “diverso”, cit. p. 115). E, non per nulla, con un senso di orgoglioso compiacimento, nello scritto che ho preso a riferimento, pubblicato più di un anno dopo, fin dal titolo egli colloca la seconda privatizzazione che lo vede protagonista nell’alveo delle “leggi Bassanini”(nn. 59 e 127 del 1997): vi « viene stabilito un nesso esplicito tra il definitivo superamento della specialità del pubblico impiego e la organica riforma amministrativa che anticipa alcuni caratteri di orientamento federale della riforma della Costituzione (sui quali è emersa una certa convergenza nella Commissione bicamerale). Le deleghe contenute nelle “ leggi Bassanini” impegnano il Governo ad affrontare alcuni temi cruciali delle riforme amministrative del nostro tempo. Uno è la tendenziale differenziazione organizzativa delle pubbliche amministrazioni (decentramento; deconcentrazione; frammentazione delle competenze). L’altro è la più diretta finalizzazione dell’azione amministrativa a risultati ed obbiettivi (valutazione; sperimentazione). Entrambe le tendenze si rivelano obiettivamente incompatibili con il mantenimento di un ordinamento speciale del pubblico impiego, e in ciò risiede il nesso tra il completamento della privatizzazione del pubblico impiego e le riforme amministrative di orientamento federalista delle “leggi Bassanini”»(Lavoro pubblico, cit. p. 234)”. E’ questo il macro-progetto in cui D’Antona colloca la privatizzazione, conferendole una rilevanza ed una dignità di cui prima era priva: da componente di un operazione complessiva di riduzione e razionalizzazione della spesa pubblica, dettata da una drammatica emergenza e gestita da una maggioranza tecnica; a parte essenziale di una riforma proiettata verso una riscrittura federalista del tit. V parte II della Costituzione “ (così Franco Carinci alla pagina 5 dello scritto che riproponiamo).
Restituiamo, pertanto, al lettore e allo studioso della storia delle riforme della pubblica amministrazione degli anni ’90 i due scritti in questione, perché costituiscono fonti preziose per indagare sui percorsi logici e giuridici che determinarono l’assetto del lavoro pubblico, così come regolato da quelle leggi, poi “assemblate” nel decreto legislativo n. 165 del maggio 2001 (sui lavori di predisposizione del testo unico vedi “Considerazioni su un testo unico che non c’è” di L. Zoppoli e “Guida a un testo unico meramente compilativo” di Valerio Talamo. Non tragga in inganno il fatto che i successivi governi siano più volte intervenuti sulle disposizioni di tale decreto: le ragioni della sua persistenza vanno individuate proprio nel fatto che tali rimeneggiamenti successivi siano stati effettuati dall’impalcatura originale del decreto 165, per dirla ancora con le parole di Franco Carinci “come una casa completata solo per un paio di piani, ma con i fili di acciaio spuntanti dal tetto provvisorio, destinati domani a far da supporto per sopraelevazioni” (pag. 29-30).
Noi che su quell’impianto nutriamo serie perplessità mettiamo in evidenza qui due aspetti che si evincono dal testo di commemorazione di Franco Carinci. Il primo risiede in una considerazione che ispirò poi il titolo stesso del suo scritto: l’utopia. Per il successo della riforma i protagonisti della privatizzazione (vertici politici, dirigenza e sindacato) dovevano interpretare il ruolo loro assegnato in modo “virtuoso”, come la diligente recita del “copione di legge”: “la difesa dei c.d. managerial rights che, nel privato, era affidata allo stesso imprenditore, collettivo ed individuale, costretto a tener conto del mercato o almeno del pareggio economico; nel pubblico era rimessa ad un trio di protagonisti tutto da inventare: un potere politico dotato di self control, una dirigenza educata a coniugare autonomia e responsabilità, una controparte sindacale non meramente rivendicativa. Un trio che era allora, e sarà poi, come avrebbe avuto tempo di sospettare, frutto di un’utopia, cioè di una rappresentazione della realtà collocata al di là della linea dell’orizzonte, visibile solo agli occhi di chi fa prevalere l’ottimismo della volontà sul pessimismo della ragione. “(pag. 11).
Il secondo aspetto caratterizzante la riforma fu quello della sua “radicalità”: alla pagina 6 del suo scritto Franco Carinci racconta: “Chi ne fu protagonista fin dalle sue prime battute, ricorda bene che in sede di Commissione mista Governo/Organizzazioni sindacali, costituita all’indomani della proposta sindacale unitaria, qualsiasi correzione limitativa dell’ambito soggettivo di applicazione suggerita dai rappresentanti governativi venne bocciata: sia quella che voleva distinguere fra amministrazioni titolari di funzioni autoritative (Ministeri, Regioni, Enti locali) e, rispettivamente, erogatrici di beni e servizi (scuola, sanità, previdenza), mantenendo fuori le prime; sia quella che intendeva separare le dirigenze dai rispettivi dipendenti, mettendo dentro solo questi ultimi. La posizione sindacale poteva sembrare dettata da una sorta di coerente radicalità, ma di fatto rispondeva sia alla situazione esistente, sia alla prospettiva coltivata.”
Proprio in questa radicalità prevalente ci pare si annidasse l’elemento più squilibrante dell’impianto della riforma: l’idea, cioè, di contrapporre i meccanismi in essere per il lavoro privato (inteso come modello virtuoso in sé) a quelli che regolano in tutti gli Stati occidentali avanzati la gestione della pubblica amministrazione. Una concezione, si badi bene, basata non solo e non tanto sull’osservazione dei limiti (evidenti) della qualità di molti servizi pubblici in questo Paese, ma anche su un rifiuto di principio di tutto ciò che è “pubblico”, negativo “ontologicamente” proprio in virtù del suo essere “pubblico”. Da questo concetto insidiosissimo – che non sarebbe giusto ascrivere ai Sindacati ma che attraversa da sempre longitudinalmente tutti i mondi intellettuali e politici italiani e mai rimosso dalla mente di coloro che a vario titolo da sempre si occupano di “riforma della pubblica amministrazione” – non poteva che discendere un pregiudizio di principio su qualunque disposizione o criterio regolativo “speciale” per gli uffici pubblici. Invece, proprio la diversità profonda che caratterizza il fine di un ufficio pubblico (la cura dell’interesse generale della collettività e l’attuazione concreta di tutte le politiche pubbliche promosse dalle forze politiche cui i cittadini affidano la gestione della Repubblica) può ben giustificare e obbligare qualunque legislatore a concepire e porre in essere normative ad hoc per assicurare qualità dei servizi pubblici a costi contenuti.
Il giudizio sull’opportunità di prevedere “regole speciali” per il lavoro pubblico (la stragrande maggioranza degli Stati ad economia di mercato – U.S.A. in primis – contempla norme e regimi speciali per l’impiego pubblico) può trarre spunto, ancora una volta, dalle parole di chi come Franco Carinci era e rimase convinto della “scommessa di fondo” connaturata alla privatizzazione del lavoro pubblico : “una riforma destinata a comportare di per sé una maggiore efficienza della pubblica amministrazione, come tale capace di assicurare servizi migliori a costi inferiori”. Ecco la vera questione! Se la privatizzazione del lavoro pubblico sia riuscita “di per sé” a conferire alla pubblica amministrazione quella maggiore qualità a costi inferiori che ci si attendeva. La dura legge della realtà ha pronunciato dopo 25 anni la sua sentenza: la privatizzazione del lavoro pubblico non è stata di per sé sufficiente a conferire qualità dei servizi e riduzione dei costi nelle pubbliche amministrazioni di questo Paese. Da qui le critiche di fondo che abbiamo espresso – come Associazione “Nuova Etica Pubblica” con il documento del luglio scorso (vedi qui: il fallimento delle riforme amministrative nel segno della privatizzazione)
Per questo fondamentale motivo la “privatizzazione” va ripensata, senza attardarsi su discussioni speciose tendenti a “tornare indietro”, ma concentrando il pensiero su ciò che ancora manca, va assolutamente “messo a punto” e modificato in meglio.
Ma questi argomenti non riguardano chi oggi non è più qui e la cui memoria va onorata e rispettata – mai strumentalizzata. La questione riguarda i vivi, coloro i quali cioè hanno potuto vedere ciò che il destino ha negato a Massimo D’Antona: gli esiti concreti dell’impianto riformatore generosamente immaginato negli anni ‘90.
Giuseppe Beato
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Carinci –D’Antona, un tecnico al servizio dell’utopia-2008