Reperto archeologico: le conferenze al CNEL sulla misurazione dei risultati

Correva l’anno 1995 e l’Italia, improvvisamente proiettata nella “seconda repubblica”, esplorava entusiasta sentieri d’innovazione in tutti i campi delle politiche pubbliche. Fra questi la gestione e il buon andamento della Pubblica Amministrazione. Fu in quel decennio che la nostra legislazione modificò in profondità le regole del gioco: contrattualizzazione del rappoorto d’impiego, contrattazione collettiva, enunciazione del principio di separazione fra indirizzi politici  e gestione manageriale, nuovo regime “a tempo” della dirigenza pubblica, introduzione surrettizia dello spoils system (che in U.S.A.  non esiste più dal 1883), esternalizzazione di molti servizi comunali prima gestiti direttamente in regime pubblico.

Alcune di quelle innovazioni entrarono nei circuiti reali delle amministrazioni pubbliche italiane. Altre, invece, rimangono ancora nella penna di tanti studiosi e nella carta della Gazzetta ufficiale, impedendo che si attui con serietà una vera riforma delle pubbliche amministrazioni.

Fra le riforme mai nate – o meglio solo concepite nelle grida manzoniane di tante leggi inutili –  vanno annovarate sicuramente quelle che, nelle migliori amministrazioni esterne costituiscono il nucleo più importante degli sviluppi degli ultimi 40 anni: il governo di una amministrazione per obiettivi stratregici pluriennali, la programmazione degli strumenti necessari per conseguire tali obiettivi (reingegnerizzazione dei processi di lavoro), la definizione di indicatori di performance misurabili e dei target, la definizione annuale di un piano di performance con l’indicazione dei risultati di performance e dei relativi costi previsti, infine la performance review annuale, da sottoporre alla valutazione delle assemblee rappresentative coadiuvate da Autorità indipendenti come il Gao statunitense o il NAO inglese. In una parola la valutazione delle performance rese dalle varie amministrazioni pubbliche nella loro unitarietà.

Eppure esistevano già nell’anno 1995 le conoscenze di base e le buone intenzioni per procedere a una “misurazione dei risultati”; il CNEL di Giuseppe De Rita se ne fece carico con conferenze annuali, la prima delle quali si tenne nella sala assembleare della sua sede di Viale Lubin nel luglio 1995. Fu istituito un gruppo di lavoro inter-istituzionale composto dal fior fiore dell’amministrazione pubblica dell’epoca: Fra gli altri, Andrea Monorchio, Tommaso Padoa-Schioppa, Mario Rey, Alberto Zuliani, Sergio RistucciaManin Carabba, Paolo De Ioanna . Ne abbiamo addirittura una registrazione audio (clicca qui). Quelle conferenze si replicarono per cinque anni, con immutata fede nei progressi che la misurazione dei risultati avrebbe potuto e dovuto creare negli uffici pubblici.

Fu tutto inutile.

La montagna partorì il topolino del decreto legislativo n. 286 del 1999 e  – ben dieci anni dopo – l’altrettanto inapplicato decreto legislativo n. 150/2009 (Brunetta) che intese definire le modalità degli atti di “piano della performance triennale” e una “relazione sulla performance annuale”  e gli “ambiti di misurazione e valutazione della performance individuale“.

Con quel decreto si dimostrava di non aver capito niente delle esperienze americana e francese, perchè si confondeva l’ottica di valutazione di un’amministrazione nel suo complesso con quella riguardante le performance individuali e, soprattutto, perchè non si prevedeva il fondamentale meccanismo di chiusura di questo sistema: la valutazione del Parlamento coadiuvato da un’Autorità indipedente ( si veda qui come in U.S.A., Francia e Inghilterra furono organizzate, regolate e gestite le riforme finalizzate alla misurazione dei risultati).

Erano “riforme” che già dall’inizio mostravano l’impossibilità di un’attuazione. E così fu. Ci rimangono gli atti di quell’antico convegno i suoi scritti e i suoi contenuti che, a parole, abbracciavano tutto il contesto necessario per attuare la “misurazione dei risultati”. Quelle riforme immaginate 30 anni fa prefiguravano quello che in questa legislatura il ministro della Pubblica Amministrazione, dott. Paolo Zangrillo chiama “meritocrazia”;  la “misurazione dei risultati”, infatti, altro non era che immettere nel pubblico la meritocrazia, cioè la naturale differenziazione della valutazione delle diverse performance, sia di ente che individuali.

Ci si permette, infine, un’autocitazione: in un articolo del 1999, chi scrive – all’epoca giovane dirigente di un ente pubblico nazionale e fan della misurazione – dopo aver  ripercorso i contenuti delle conferenze al CNEL, illustrava alla fine (vedi Le conferenze annuali sulla misurazione  alle pagg. 501 e seguenti) i modi “silenziosi” attraverso i quali i “misuratori” perdevano le loro battaglie nelle diverse amministrazioni pubbliche. Prevalevano – era chiaro già allora – “le voci di dentro”, cioè l’autoreferenzialità delle burocrazie; unico possibile strumento – adottato nelle amministrazioni di altri Paesi – era ed e’ una pressione sull’interno degli enti  generata da controlli effettuati dall’esterno, a cura di un Parlamento coadiuvato da analisi neutrali effettuate da autorità indipendenti.

Gli esempi virtuosi c’erano e ci sono. Va anche dato atto a una parte  lungimirante del ceto accademico e dirigente pubblico di essersi impegnato con coraggio e generosità per imporre una cultura dei risultati nelle pubbliche amministrazioni italiane. Evidentemente esistono ancora oggi altre forze prevalenti che vanificano questo obiettivo cruciale.

Giuseppe Beato

 Conferenza CNEL giugno 1995

 

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