Di seguito la recensione di Antonio Zucaro a “Roma come se” di Walter Tocci – 2020 Donzelli editore – pubblicata anche sul sito web Demosfera.
“Roma come se” (Donzelli, Roma 2020), costituisce un ulteriore ampliamento del già vasto insieme di riflessioni su Roma prodotto da Walter Tocci in opere precedenti. In “Non si piange su una città coloniale” (Donzelli, Roma 2015), scritta dopo lo scandalo di Mafia capitale, e nella Postfazione alla cruciale “Le mappe della disuguaglianza” (Donzelli, Roma 2019), di Lelo, Monni e Tomassi, Tocci aveva già presentato delle analisi articolate e convincenti dei principali aspetti della crisi sociale, culturale e politica della città, producendo materiali preziosi per la comprensione della patologica complessità della capitale. In “Roma come se”, nell’anno della pandemia ancora dilagante, l’autore allarga ancora l’arco dei materiali, delle esperienze e delle opere considerate, vi innesta altre elaborazioni concettuali, ne approfondisce sotto diversi aspetti la prospettiva storica dal recente passato a quello più distante, fino all’800. Prosegue, così, il suo lavoro di documentazione, approfondimento e rielaborazione originale svolto sui diversi piani della produzione culturale, delle esperienze sociali e della storia politica. E dunque della Storia con la S maiuscola, della Capitale e dell’intero Paese. Un caso esemplare di “filosofia della prassi”, che muove dall’esperienza politica, sociale e personale, procede sul piano teorico e culturale, sfocia inevitabilmente in proposte per una politica futura, definendo una visione di prospettiva più strutturata e più alta di quella già presente nelle opere precedenti.
Il risultato è un’opera assai densa, che tratta decine di questioni a vari livelli di complessità, tenute insieme da fili logici distinti ma collegati. Essendo impensabile, almeno per chi scrive, renderne una sintesi organica ci si limiterà alla segnalazione di alcuni nodi di maggior rilievo nella prospettiva spalancata dall’aggravarsi della crisi di inizio millennio.
Cominciando dalle cause profonde della decadenza, Tocci le individua nel progressivo esaurirsi di tre “rendite”, ovvero posizioni di privilegio di Roma rispetto ad altre città, che ne hanno accelerato e distorto lo sviluppo. Distorsione colta da Pasolini nella definizione di Roma come “una città coloniale”, ripresa da Tocci, per indicare una città costruita velocemente da fuori per farne la capitale d’Italia, passando in centocinquanta anni da circa 200.000 a più di 3.000.000 di abitanti. A differenza delle altre grandi capitali europee, cresciute nei secoli sedimentando gradualmente l’evoluzione della funzione di capitale di uno Stato.
La prima “rendita”, dunque, è stata quella di essere Capitale, centro della statualità italiana e sede dei massimi organi costituzionali, nell’espansione continua di funzioni e di apparati dall’arrivo dei “piemontesi” dopo il 1870, passando per i ministeri giolittiani, la creazione di nuovi enti operata del fascismo, lo sviluppo del “secondo Stato” degli Enti economici (IRI, ENI, ENEL, etc.) dopo il 1945. Ma anche delle sedi centrali o di rappresentanza delle grandi imprese, banche, società di assicurazioni, associazioni di categoria, ovvero di tutti i soggetti collettivi interlocutori dello Stato centrale. Negli ultimi decenni questa rendita s’è fortemente indebolita per il venir meno della centralità dello Stato, con la cessione di funzioni verso l’alto in direzione dell’Unione europea e verso il basso, in direzione delle Regioni e delle autonomie locali. A questo processo si sono affiancate le liberalizzazioni e le privatizzazioni che hanno investito il “secondo Stato”, facendogli perdere peso e consistenza di apparati. Il risultato è la situazione attuale, nella quale l’evidente crisi dello Stato italiano si riverbera e riproduce nella crisi della sua Capitale, nella sua immagine e nel senso di sé.
La seconda grande rendita di cui Roma s’è trovata a godere è il “patrimonio simbolico” costituito sia dall’eredità storica di Roma antica sia dall’essere sede della Chiesa cattolica apostolica romana. Un doppio privilegio spesso mal gestito dalle classi dirigenti, con l’eredità storica e culturale irrigidita nelle simbologie retoriche e monumentali fino al parossismo pseudoimperiale del fascismo. Ed un rapporto con la Chiesa, dopo la fase ottocentesca del laicismo, esposto alle tentazioni della subalternità culturale e della connivenza materiale. In ogni caso, questa situazione di privilegio e la sua traduzione in grandi flussi turistici, già parzialmente compromessa dal degrado urbano e dallo scadere dell’immagine pubblica della città, è stata praticamente azzerata dall’emergenza della pandemia.
La terza “rendita”- qui il termine riprende il suo significato tecnico – è quella immobiliare. In tutte le città il valore economico delle proprietà immobiliari tende a crescere col crescere dell’agglomerato urbano, che creando nuove periferie trasforma le vecchie in zone semicentrali e ingloba nel “centro” le periferie più vicine. A Roma questa crescita è potuta avvenire nel vuoto dell’Agro romano, in tutte le direzioni, senza i limiti dovuti all’orografia, come il mare e la montagna a Genova, o all’esistenza di altri centri urbani nelle immediate prossimità, come a Milano. Così l’aumento vertiginoso della popolazione ha trovato posto in una dilatazione dello spazio urbano per fasi successive, dal riempimento delle Mura aureliane fino al 900, alla costruzione delle borgate semi-rurali e dei quartieri della periferia storica da parte del fascismo, al successivo allargamento di questa fino alla costruzione della “città anulare”, con più di un milione di cittadini che vivono attorno od oltre il GRA. In tal modo l’aumento di valore delle proprietà immobiliari è divenuto il vettore principale della creazione di capitale finanziario, con una spinta poderosa a costruire nuove abitazioni che ha stravolto lo sviluppo urbano e prodotto, alla fine, lo sgonfiamento della “bolla” immobiliare e il conseguente crollo delle costruzioni.
Un particolare pregio di “Roma come se”, ad avviso di chi scrive, sta nel suo porre in rilievo questa della rendita immobiliare come la contraddizione principale tra gli interessi del capitale finanziario e quelli della grande maggioranza della popolazione. Non in astratto, ma definendone puntualmente i termini, i soggetti e le fasi di sviluppo fino a ricavarne indicazioni precise sulla trasformazione urbana, il consumo di suolo, la tassazione della rendita, l’edilizia popolare, come nocciolo del programma complessivo di cui tratta l’intero libro.
Le contraddizioni prodotte dalla rendita urbana hanno inciso molto sull’orientamento politico del “popolo” di Roma, cui l’autore dedica un capitolo meritevole di un’attenzione specifica, rivolta in particolare al “popolo comunista” composto dal “popolo delle borgate” (poi della periferia estrema) e dalla classe lavoratrice. Il primo nasce con l’espulsione dei ceti popolari dal centro storico, operata dal fascismo con gli sventramenti dei vecchi quartieri e poi con gli sfratti susseguenti allo sblocco degli affitti. Gli sfrattati vennero deportati nelle “borgate semi rurali”, da Primavalle al Quarticciolo, edificate in zone dell’Agro romano ben lontane dal centro della Capitale dell’Impero. Già spontaneamente attivo nella Resistenza, il popolo delle borgate ha assunto un ruolo da protagonista nelle battaglie per il riscatto delle borgate condotte dal PCI romano, su una linea politica di attenzione al sottoproletariato assai distante dall’ortodossia marxista. Linea centrata sui tre elementi della lotta al fascismo, del contrasto alla rendita urbana e dell’affrancamento di tutti i ceti popolari dall’oppressione e dalla miseria, che ha coinvolto il sottoproletariato delle borgate, gli edili e i lavoratori dei servizi pubblici nella costruzione di un ampio schieramento popolare, via via allargato ai ceti medi intellettuali, sul quale si è costruito un Partito di massa. Poi, l’inurbamento di grandi quantità di popolazione già dagli anni ’50 ha prodotto una esplosione dell’abusivismo edilizio, lungo le vie consolari verso le ”borgate”, poi con la cementificazione degli spazi intermedi, ed infine con l’espansione nelle aree intorno al Raccordo anulare. Il PCI organizzò grandi lotte per la sanatoria dell’abusivismo e per la costruzione delle infrastrutture di servizio necessarie in tutte le nuove periferie, poi massicciamente realizzate dalle prime giunte di sinistra. Tuttavia gli ex abusivi e i molti, nuovi piccoli proprietari entrarono nel gioco della DC romana, che cavalcò l’irregolare sviluppo edilizio lungo una linea che Tocci definisce efficacemente come “popolarizzazione della rendita”, mettendo insieme gli interessi di questi strati di popolo con quelli dei grandi gruppi immobiliari, finanziari e delle costruzioni. Lo sviluppo della piccola proprietà e la diffusione degli stili di vita e di consumo suggeriti dalla TV commerciale ha prodotto cambiamenti profondi del senso comune, dell’idea di sé, dei rapporti sociali del popolo delle periferie, provocandone uno smottamento politico dapprima verso la DC e poi dagli anni ’90 verso la destra, per la frantumazione sociale, il progressivo aggravarsi delle difficoltà materiali, l’aumento della presenza di immigrati stranieri. Fenomeno, quest’ultimo, sapientemente sfruttato con parole d’ordine come “l’invasione” o “prima gli italiani” per cavalcare lo smarrimento, l’insicurezza e la paura delle periferie facendo leva sulla concorrenza degli stranieri sul mercato del lavoro e sulla fruizione di servizi sociali sempre più ridotti. Fino a contrapporre i “penultimi” agli “ultimi” (immigrati, rom, occupanti di edifici), per difendere la disuguaglianza verso il basso tenendo coperta la ben più grave disuguaglianza verso il vertice della piramide sociale. Anzi, indicando come “élite” gli intellettuali progressisti che guardano alle contraddizioni globali restando estranei agli interessi del popolo.
Con l’ulteriore accelerazione della crisi indotta dalla pandemia, l’aggravamento delle lacerazioni sociali sta incrinando soprattutto in periferia gli orientamenti consolidati, aprendo grandi spazi a iniziative di cambiamento in varie direzioni, anche quelle peggiori. Di qui la necessità di produrre nuove narrazioni e programmi incisivi, all’altezza della complessità dei tempi, raccogliendo le richieste di interventi pubblici, di servizi pubblici, di regolazione pubblica in direzione di una riduzione delle disuguaglianze materiali, sociali, culturali. A questo riguardo, le considerazioni svolte da Tocci sulla rendita immobiliare e sulla storia del “popolo” di Roma fanno emergere, ad avviso di chi scrive, una indicazione politica di ordine generale sulla possibilità di ricomporre una aggregazione sociale di ceti medi impoveriti, lavoratori delle diverse categorie, precari, esclusi, su una linea di grande espansione dei servizi e degli interventi pubblici. A condizione di riuscire a produrre politiche utili – partendo dal fisco – a staccare la piccola proprietà dalla grande rendita urbana, e più in generale la piccola impresa dalle varie forme di soggezione al capitalismo finanziario, togliendo agli interessi forti la copertura e la base di massa fornita loro dal contrasto, reale o propagandato, tra gli interessi dei penultimi e quelli degli ultimi.
La marcia in più di “Roma come se”, alla fine, è questa: una visione generale ragionata ed articolata, che investe la complessità dei problemi ponendola in una prospettiva di evoluzione temporale lungo direttrici precise. Consentendo, così, una volta scelto da che parte stare e in che direzione andare, di selezionare punti d’attacco, percorsi e traguardi. Questa visione generale può riassumersi nell’ampliamento della correlazione tra Città e Stato insita nel ruolo di Capitale oggi in crisi, ad una concezione che tiene insieme la Città Regione e la Città Mondo.
Sulla Città Regione Tocci riprende la proposta della costituzione di Roma come Regione Capitale, ovvero dell’attribuzione alla Città metropolitana del potere legislativo proprio di una Regione ordinaria, portando gli attuali Municipi al rango di Comuni metropolitani con proprie funzioni, bilanci e risorse alla pari degli altri Comuni dell’hinterland.
Sulle motivazioni e sulle articolazioni di questa proposta nei vari campi dall’urbanistica ai servizi pubblici si rinvia al testo, oltre che ai precedenti lavori dell’autore. A questi si rinvia anche per la trattazione della soluzione subordinata, rappresentata dal possibile potenziamento del ruolo di indirizzo, coordinamento e programmazione della Città metropolitana rispetto ai Municipi da trasformare comunque in Comuni, in attesa delle procedure di revisione costituzionale occorrenti per realizzare la proposta principale. In questa sede ci si limita a segnalare l’originalità della proposta di consentire ai Comuni del Lazio esterni all’area della Città metropolitana di poter accedere a questa tramite referendum, abbandonando la Provincia di attuale appartenenza. Scelta importante per quei Comuni la cui popolazione pende comunque in maggioranza su Roma per il lavoro, lo studio e il tempo libero. L’altro punto che chi scrive non può non citare è quello relativo all’apparato amministrativo, che l’autore tratta con una attenzione inusuale seguendo la linea sintetizzata dal titolo del relativo paragrafo, ovvero: L’amministrazione servente, non asservita. Impostazione assolutamente condivisibile e valida in generale, per tutte le amministrazioni pubbliche che a Roma hanno sede.
La parte più originale e più stimolante del libro, tuttavia, è quella relativa a Roma come Città Mondo, collocando in una prospettiva globale il possibile ruolo di questa città come Centro del Mediterraneo, all’incrocio di rapporti, flussi e contraddizioni decisive per le sorti del pianeta. In questa prospettiva viene inquadrato un insieme di proposte innovative che prende le mosse dalle modalità di esercizio del ruolo di Capitale d’Italia e di Sede del Papato, vertice della Chiesa cattolica, per allargarsi al di là della materia istituzionale e diplomatica alla sfera della cultura e della civiltà umana. Dall’ampliamento del dialogo interreligioso oggi promosso da Papa Francesco, alla costruzione di una multiculturalità conseguente alla piena integrazione degli immigrati, a sua volta basata sull’accoglienza come nuova forma del Welfare urbano. L’opera, inoltre, raccoglie un gran numero di proposte innovative sulla gestione e la fruizione dello straordinario patrimonio archeologico, architettonico, artistico, archivistico della città, anche attraverso lo sviluppo di un turismo intelligente. E poi ancora proposte sulla scuola, sulla ricerca, sulle Università al plurale, fino al progetto della creazione di una “Accademia internazionale di Roma”, non un altro Ente ma un polo di integrazione, promozione e coordinamento delle iniziative e dei programmi assunti dal vasto complesso delle Università, Centri di ricerca, Accademie nazionali, Istituzioni culturali internazionali, grandi Archivi, Biblioteche che a Roma hanno sede. Moltiplicando così le possibilità di realizzare l’immenso potenziale rappresentato da questo insieme di enti, innestato su un patrimonio culturale unico al mondo.
In particolare, ad avviso di chi scrive, questa visione di Roma come una delle capitali della cultura mondiale offre la possibilità, all’interno della città, di potenziare ed ampliare le funzioni dei ceti medi urbani intellettuali, impegnati già oggi sul fronte della cultura e dunque dello sviluppo della persona umana, l’unico realmente equo e sostenibile.
All’esterno, questa visione attribuirebbe a Roma un ruolo di rilancio a livello globale della grande cultura, kultur e zivilisation insieme. Della cultura strutturata, che usa il web senza liquefarvisi, articolata nella conoscenza e nella valutazione critica delle diverse creazioni dell’intelletto umano, dello studio delle loro interrelazioni e della relativa evoluzione storica, a più livelli.
Della cultura che genera il nuovo producendo, ad esempio. libri come questo.
Antonio Zucaro