Filippo Turati, nel contesto delle sue tante battaglie per il progresso sociale del nostro Paese, fu probabilmente il primo politico e pensatore a sostenere e promuovere la nascita di un sindacalismo non grettamente corporativo dei lavoratori pubblici. Nella lectio che su questo tema svolge il prof. Guido Melis colpiscono soprattutto due aspetti della posizione di questo leader: 1. che egli fosse completamente isolato all’interno del partito socialista nel sostegno al sindacalismo pubblico, a motivo della considerazione totalmente negativa che lì si nutriva nei confronti dei travet piccolo-borghesi garantiti, al confronto con la classe operaia; 2. la visione nuova e “rivoluzionaria” dello Stato: non più gendarme, militare e autoritario, come agli inizi del ‘900 era generalmente considerato dal ceto liberare dell’epoca, ma Stato industriale, regolatore delle industrie, coinvolto nella trasformazione dell’Italia fino allora paese contadino. Era la concezione di “pubblico servizio” e protagonista attivo della crescita economica e sociale. Una concezione all’avanguardia.
Colpisce rileggere nella storia che Melis ripercorre la situazione di diritti negati di chi lavorava nella pubblica amministrazione di inizio ‘900: basti pensare che le donne vi potevano operare solo da nubili, perché al momento del matrimonio erano licenziabili.
In tale contesto primordiale Turati pensava a un sindacato progressivo, capace di essere il motore di una riforma dello Stato, da agrario/militare a industriale/progressista. In altri termini era il sogno generoso e visionario di un sindacato portatore, non solo degli interessi dei lavoratori pubblici, ma anche propulsore degli interessi generali della collettività nazionale. Con la stessa generosità si sarebbe mosso un secolo dopo Massimo D’Antona, il costruttore della riforma della privatizzazione del pubblico impiego (vedi qui). Ma, probabilmente, per la difesa degli interessi generali della collettività dovrebbe ergersi un altro protagonista della vita di una democrazia: il Parlamento.
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