Affidiamoci alla penna di Stefano Battini, Luigi Fiorentino e Lorenzo Casini, tre studiosi di pubblica amministrazione fra i più accreditati, per conoscere quale sia il parere documentato e ragionato sui rapporti fra politica e dirigenza dopo le riforme degli anni ’90.
Chiediamoci anche il motivo per il quale ricerche come questa, pur finanziate dallo Stato, non ricevano adeguata pubblicità e seguito alcuno da quello stesso Stato che spende i nostri danari per indagare sui nodi problematici delle pubbliche amministrazioni.
La Scuola Nazionale della Pubblica amministrazione (SNA) e l’IRPA, Istituto di ricerche sulla pubblica amministrazione fondato da Sabino Cassese e oggi presieduto dalla prof.ssa Luisa Torchia, hanno prodotto nello scorso anno 2014 il workin paper che pubblichiamo qui sotto. Esso meriterebbe una diffusione molto più ampia – soprattuto presso i decisori politici – di quella che finora ha ricevuto. Nello studio viene analizzato a fondo (230 pagine fitte di riferimenti normativi e bibliografici) il rapporto politica -dirigenza pubblica (non solo quella statale, ma in modo molto documentato e approfondito anche di quella regionale e comunale) nell’ultimo ventennio.
La tesi di tutto il lavoro è la mancata separazione fra politica e amministrazione in Italia, quanto a dire del pernio fondamentale che dovrebbe garantire l’osservanza dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità contenuti nell’articolo 97 della Carta. Riforme fallite pertanto! Lasciamo alla più articolata illustrazione presente nell’introduzione (pag. 9 e segg.) e nei successivi tre saggi l’argomentazione circostanziata di quanto affermato. Tuttavia, è difficile resistere alla tentazione di citare testualmente le “perle” rintracciabili qui e là in tutto il percorso del paper. Eccone alcune:
“….distinguere la politica dall’amministrazione (direttive politiche dalla gestione) è nell’opinione prevalente ineludibile se si vuole modernizzare i corpi burocratici in Italia, e questa è stata la scelta compiuta con il d.lgs. n. 29 del 1993. Tuttavia, la disciplina in cui l’azione riformatrice è contenuta appare “fessurata” sin dal principio. Lo è proprio nella misura in cui «la separazione tra politica ed amministrazione è affermata sotto il profilo funzionale, non sotto quello strutturale»” (pag 81)……..Il regime degli incarichi dirigenziali (conferimento, rinnovo, revoca, mancato rinnovo, ecc.) si è cosi rivelato un efficace strumento per l’affermazione della supremazia della politica sulla dirigenza (pag. 19)……”la disciplina del conferimento degli incarichi dirigenziali è divenuta strumento di fidelizzazione dell’amministrazione alla politica; dall’altro lato, le strutture di raccordo concepite per facilitare la separazione di funzioni, ossia gli uffici di diretta collaborazione, sono divenuti strumento per consolidare l’ingerenza politica e la commistione dei compiti.” (pag. 21)……..La subordinazione dei dirigenti pubblici ai politici rende evanescente anche la distinzione funzionale di ruoli e responsabilità tra le due componenti al vertice dell’amministrazione. Infatti, se i dirigenti sono «manipolabili e persino ricattabili», il corpo politico può riappropriarsi della gestione, senza tuttavia assumerne la corrispondente responsabilità. La conseguenza ultima dello strapotere politico sul piano degli equilibri istituzionali è l’irrigidimento del «monismo dello Stato»” (pag. 93)………“La contrattualizzazione in blocco della dirigenza ha imposto una soluzione tecnica che potesse combinare elementi logicamente inconciliabili: la stabilità e la precarietà dei dirigenti pubblici. L’ossimoro è realizzato separando il rapporto di servizio, vale a dire l’impiego presso l’amministrazione, dal rapporto d’ufficio, ossia l’incarico da svolgere. La prima relazione, secondo la tradizione che proviene dal passato, si conforma alla sostanziale inamovibilità: ora come allora i dirigenti non perdono il lavoro. La seconda, invece, si caratterizza per un’accentuata instabilità” (pag. 83-84)….”La classe politica accettò volentieri di rendere l’alta dirigenza responsabile, anche giuridicamente, di tutti gli atti di gestione. Non può dimenticarsi che lo sfondo nel quale questa disciplina fu adottata è rappresentato dall’“intrico” d’inchieste giudiziarie che porteranno alla dissoluzione dei partiti politici dell’area dell’allora maggioranza parlamentare. L’imputabilità diretta ed esclusiva dei dirigenti a seguito dell’esperimento dell’azione penale è stata accolta con sollievo dai politici sopravvissuti a “tangentopoli” o da questa vicenda collocati al centro della vita istituzionale” (pag. 80)….”La dirigenza delle Regioni, pur se assoggettata a discipline di matrice regionale, non presenta profili che la differenzino in modo sensibile da quella dello Stato. Come quella statale, anche la dirigenza regionale subisce la supremazia della politica. Quest’ultima, proprio utilizzando il potere di nomina, pone la dirigenza regionale in una condizione di debolezza, se non di sostanziale “ricattabilità” (pag. 126)…….”Esasperazione della temporaneità dell’incarico dirigenziale e della sua caducità automatica” (pag. 87)….“Alla scadenza di un incarico di livello dirigenziale, anche in dipendenza di processi di riorganizzazione, non intendono, anche in assenza di una valutazione negativa, confermare l’incarico conferito al dirigente, conferiscono al medesimo dirigente un altro incarico, anche di valore economico inferiore” (pag151)…”per motivate esigenze organizzative, l’amministrazione può in ogni momento, quindi anche prima della data di scadenza dell’incarico conferito, disporre il “passaggio ad altro incarico del dirigente”(pag. 152)……”Perché la dirigenza è stata sostanzialmente acquiescente verso tutto ciò? Nel nuovo regime, la dirigenza migliora notevolmente le proprie condizioni retributive e ottiene che l’instabilità dell’incarico non comporti la precarietà del rapporto di lavoro. Con la fidelizzazione politica, la dirigenza continua a sfuggire a meccanismi in cui la carriera sia legata a un accertamento oggettivo della professionalità e della produttività. Come si è visto, i vari espedienti che rendono gli incarichi temporanei svuotano l’istituto della responsabilità dirigenziale. La tendenza all’alternanza tra i due schieramenti politici principali consente alla dirigenza schierata politicamente di alternarsi negli incarichi meglio retribuiti (senza considerare una certa tendenza al camaleontismo politico). Ciò permette a una caratteristica originaria della dirigenza pubblica, quella di formare una “società di uguali non meritocratica”, di transitare nel nuovo regime. Se nel primo ventennio si faceva carriera per anzianità, nel secondo si va avanti per consentaneità politica. Ma né ora né allora la professionalità, la capacità e il merito giocano un ruolo decisivo.” (pag.155).
“Quel che caratterizza la posizione del manager privato è, però, la precarietà: l’imprenditore, per la natura del rapporto che lo lega al manager, può deciderne il licenziamento ad nutum. Tale condizione non può essere trasposta tout-court nella dirigenza pubblica, perché la sua stabilità è una condizione indispensabile per il rispetto del principio costituzionale dell’imparzialità della burocrazia (art. 97 cost.).” (pag. 83). Solo un anno dopo la pubblicazione di questo paper il Governo della Repubblica proponeva al Parlamento un testo agli antipodi rispetto alle osservazioni e alle raccomandazioni lì contenute .
Da sottolineare che le tesi esposte nel paper non provengono da da qualche sindacato dei dirigenti pubblici, ma da un Organo dello Stato (la SNA) e da qualificati studiosi e accademici universitari operanti presso l’IRPA. C’è sicuramente, forse, una povertà di proposte, ma non poteva essere questo lo scopo di uno studio a carattere storico-scientifico. Tuttavia sarebbe stato e sarebbe prezioso partire dalle sue conclusioni per tracciare percorsi nuovi, evitando come la peste di farsi attrarre dalle trombonate di politici demagoghi e di giornalisti trasformatisi da ottimi corsivisti che erano in mediocri personaggi da talk show.
Giuseppe Beato
SNA e IRPA 2014 – Politica-e-Amministrazione-in-Italia-venti-anni-di-mancata-separazione