La sindrome dei balcani

Editoriale di Sergio Romano sul Corriere della Sera del 13 marzo 2013

 

PARTITI, ISTITUZIONI: TUTTI CONTRO TUTTI

La sindrome dei Balcani

Per alcuni anni il partito di maggioranza relativa in Svizzera (Unione democratica di centro, fondata dall’industriale Christoph Blocher) è stato una forza politica intollerante, xenofoba, attraversata da umori razzisti e pregiudizialmente ostile a qualsiasi forma di integrazione europea. Le sue posizioni non erano condivise dagli altri maggiori partiti democratici (cristiano-sociali, socialisti, liberali) ma non hanno impedito che fra questi fratelli nemici si stabilisse un pragmatico rapporto di collaborazione nell’interesse del Paese. È accaduto perché tutti, anche Blocher, hanno capito che un dissidio interno, portato alle sue estreme conseguenze, avrebbe impedito alla Confederazione di affrontare e superare le grandi crisi economiche e finanziarie degli ultimi anni. Il risultato della convivenza fra i maggiori partiti svizzeri, nell’ambito di una grande coalizione, è un Paese prospero in cui le grandi banche hanno risanato i propri conti, la maggiore preoccupazione della Banca centrale è quella di evitare che l’eccessivo apprezzamento della moneta nazionale pregiudichi le esportazioni, il tasso di disoccupazione è al 3,1%, i cittadini elettori dicono no alla riduzione delle ore di lavoro e sì a quella dei bonus con cui i banchieri gratificano se stessi.

L’Italia ha imboccato la strada opposta. I partiti e persino le istituzioni (fra cui la stessa magistratura) non hanno altro orizzonte fuorché quello della propria sopravvivenza, della propria identità, della difesa delle proprie prerogative. Conosciamo bene i nostri mali: spese inutili, un Parlamento pletorico, una classe politica avida, una burocrazia e una giustizia paralizzanti, un gettito fiscale che non giova alla crescita perché serve in buona parte a pagare i debiti del Paese. Ma ogniqualvolta un governo cerca di prendere il toro per le corna, quasi tutti vedono nelle riforme soltanto il danno che potrebbe derivarne per la famiglia politica o sindacale a cui appartengono. Come nella penisola balcanica all’inizio degli anni Novanta, il desiderio di sfogare la propria rabbia e punire il «nemico» prevale su qualsiasi altra riflessione.

Per un breve periodo (i primi mesi del governo Monti) abbiamo sperato che le maggiori forze politiche avrebbero assicurato all’esecutivo la loro collaborazione. Più recentemente abbiamo sperato che il risultato inconcludente delle elezioni avrebbe costretto i maggiori partiti (quelli che hanno grosso modo programmi convergenti) ad accantonare i loro dissensi. Avrebbero dato al Paese un governo e al Movimento 5 Stelle lo spettacolo di una classe dirigente ancora capace di un soprassalto di orgoglio e buon senso. È accaduto esattamente il contrario. Nessuno è disposto a sacrificare qualcosa o a fare un passo indietro. Come nei Balcani, durante il decennio degli anni Novanta, si è perduto, a quanto sembra, il sentimento di un destino comune. I primi ad accorgersene saranno i partner europei e, naturalmente, i mercati. Quando constateranno che l’Italia balcanizzata è soltanto un campo di battaglia fra corporazioni economiche e istituzionali, tutti smetteranno di attendere il suo risanamento e cominceranno a scommettere sul suo collasso. Il costo del debito aumenterà e tutto diventerà ancora più difficile. Beninteso, quel giorno le battaglie corporative che hanno paralizzato il Paese avranno perduto qualsiasi significato: non vi sarà più niente da spartire.

Sergio Romano13 marzo 2013 | 7:44

 

Schiavone- Galli della Loggia: Il ’68 e la modernizzazione dell’Italia

Dal sito del CORRIERE DELLA SERA del 5 settembre 2011

Anticipiamo un brano del libro «Pensare l’Italia», in uscita domani da Einaudi, nel quale Ernesto Galli della Loggia e Aldo Schiavone s’interrogano sul passato e sulle prospettive del nostro Paese. Un dialogo vivace, a volte polemico, percorso da forti preoccupazioni per il rapporto difficile che gli italiani intrattengono con la modernità e per la permanenza di un «carattere nazionale» refrattario al riconoscimento dell’interesse generale. Spesso i giudizi divergono, come nei passi qui riportati: per esempio, mentre Schiavone è convinto che i rivolgimenti degli anni Sessanta abbiano avuto sull’Italia effetti di reale progresso civile, Galli della Loggia ritiene che quelle novità siano state recepite in modo superficiale e non abbiano inciso sui vizi antichi e profondi della nostra società. In generale Schiavone guarda di più alla dimensione sociale dei fenomeni e mostra una maggiore fiducia nell’integrazione europea, mentre per Galli della Loggia i pericoli disgregativi che affliggono il Paese potranno essere scongiurati solo colmando l’attuale grave deficit di senso dello Stato.

ALDO SCHIAVONE – L’irresistibile pluralismo dell’Italia rese possibile il Rinascimento e insieme uno sviluppo economico senza precedenti, ma non consentì la formazione di una massa critica in grado di congiungere quantità e spazi indispensabili alla nascita di un grande Stato territoriale, come quelli che si stavano costruendo in Europa. Né avemmo il tempo di sperimentare soluzioni diverse e più adatte a noi: il «sistema Italia» messo in piedi nel corso del Quattrocento si rivelò alla prova dei fatti politicamente fragilissimo, e fu spazzato via. Questa contraddizione – primi, ma indifesi – ci è restata da allora conficcata dentro. La tensione fra comunità locali e identità italiana, che avrebbe potuto risolversi nell’invenzione di una via originale all’integrazione, si esaurì invece in un accentuarsi delle lacerazioni. La Controriforma fu la guida del nostro declino. Diventammo il terreno privilegiato di una grande offensiva cattolica, invece di essere il laboratorio di una nuova statualità (avremmo potuto pur diventarlo, in termini culturali). Mettemmo definitivamente la parrocchia al posto dello Stato: e questo stabilì rapporti di forza dal cui raggio non siamo più venuti fuori, nemmeno in centocinquant’anni di storia unitaria.

La geografia civile e mentale del Rinascimento uscì stravolta dall’impatto con il nuovo disciplinamento, che si combinava al dissesto politico del Paese. Esso contribuì a cristallizzare quello che possiamo chiamare il carattere moderno degli italiani, la qualità di un mondo interiore di lunga durata. Se ne distinguono perfettamente i tratti: il prevalere, in ogni giudizio, dell’intenzione sulla responsabilità; la sensibilità per l’ombra, per l’oscurità irrimediabile della materia umana; la propensione rassicurante per la continuità, e l’orrore del salto e del cambiamento; una percezione ambivalente del potere: cui conviene adattarsi, perché nell’assecondarlo c’è comunque un principio di salvezza, ma ritagliandosi una propria personale misura di disobbedienza, combinata con l’ostilità verso le regole generali e l’uniformità delle leggi; la percezione dello Stato come di un possibile nemico, del quale diffidare sempre; la duttilità di piegarsi, per non spezzarsi mai; una rappresentazione autosufficiente e molecolare di sé, chiusa nella dimensione privata o al massimo nella cerchia familiare.

È stata la Repubblica dei partiti e poi la nostra (tardiva) rivoluzione industriale degli anni Sessanta del Novecento, culminata nel ’68 degli operai, degli studenti, e insieme dei movimenti femminili che hanno cambiato radicalmente il vissuto di milioni di donne, a spezzare questa lunga continuità, e a far entrare la nostra storia sociale e civile in un’altra orbita, a gettare le basi di un individualismo acquisitivo consumista e permissivo, più in linea con quanto accadeva nel resto dell’Occidente. Ma il maggiore benessere e la più ampia libertà riproponevano l’antica scissione fra ricchezza e potenza, e l’antica subordinazione delle forme alla vita. Consumatori, non (ancora) cittadini; creativi, senza disciplina; audaci, senza struttura civile.

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ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA – Permettimi di dubitare radicalmente circa l’effetto di cesura epocale sul piano non del costume ma del carattere, che tu attribuisci al ’68 e in genere alla modernizzazione degli anni Sessanta-Settanta. Una frattura che secondo te metterebbe fine al fondo pre-moderno dell’individualismo italiano. Non credo proprio che le cose stiano così. C’è stato sì, allora, un grande mutamento, per esempio, nei costumi sessuali, dunque nei rapporti tra i sessi; e poi ancora nelle relazioni tra le diverse età, tra padri e figli, per finire con la diffusione dappertutto di un’atmosfera di pervadente informalità.

Ma sono convinto che tutto ciò non è arrivato in alcun modo a intaccare quel carattere anarchico-clanistico dell’individualismo italiano di cui abbiamo parlato prima. Anzi mi pare che la forza secolare di tale carattere si sia mostrata capace di riassorbire, in gran parte, la rottura sessantottesca modernizzatrice, rendendola alla fine qualche cosa di abbastanza superficiale. Nella sua sostanza profonda, infatti, la società italiana è rimasta quella che era prima del ’68: oligarchica, gerarchica, dove il rango conta sempre più del merito, conformista, nemica dell’individualismo. Esattamente com’era prima della frattura modernizzatrice. La quale ha avuto tra i principali effetti quello di diffondere nel Paese un grado elevatissimo di edonismo, che non ha riscontro in altri paesi. Alla fin fine la grande modernizzazione mi sembra essersi ridotta al puro e semplice abbandono – e lasciami aggiungere superficialissimo – dei principî dell’etica tradizionale di stampo cattolico. Devo dire la verità: non mi sembra una grande conquista.

Dall’altra parte, la modernizzazione ha rafforzato paradossalmente l’antico vincolo corporativo e di gruppo. È stato proprio dopo la «rottura moderna» che questo carattere decisivo della tradizione italiana, invece di diminuire, è molto aumentato. Come mi sembra molto aumentato il nostro familismo congenito, grazie al quale oggi i figli restano a vivere in famiglia ancora più a lungo di prima. È questa la modernizzazione sessantottesca del costume?

SCHIAVONE – L’antropologia italiana non è però soltanto negativa. Nel nostro carattere vi sono di sicuro gli esiti di molti traumi, ma si sono depositate anche attitudini preziose, che ci hanno tenuto in piedi, pur in momenti di difficoltà estrema. Ho già detto dell’esuberanza dei nostri animal spirits – predisposizioni mentali e pulsioni emotive educate non meno dalle avversità che dalla lunga abitudine a dover inventare per cavarsela. Della nostra propensione all’universalismo e alla connessione fra saperi diversi. Della capacità di ripartire ogni volta daccapo, e di trovare spesso soluzioni originali, adeguate alle forze e agli interessi in campo. Una tendenza adattativa che sa diventare autentica plasticità intellettuale, sociale e organizzativa, duttilità di fronte all’imprevisto, disponibilità ad accogliere dentro di sé la molteplicità del mondo, e insieme valutazione realistica dei dati di fatto. Certo, poi accanto a tutto ciò vi sono le zone d’ombra, o i veri e propri buchi neri. Ma la dialettica fra questi pieni e questi vuoti non presenta sempre un saldo negativo e nemmeno a somma zero. Sarei anzi portato a dire che, nonostante un pessimo inizio del nuovo secolo, e nonostante tutti gli obiettivi rischi di declino che abbiamo ricordato e che rendono oscuro e incerto il nostro presente, gli italiani agli inizi del nuovo millennio siano, alla fine dei conti, migliori dei loro antenati di un secolo fa: e non solo per l’aumento nei livelli di istruzione; per la crescita vertiginosa nelle possibilità di informazione, di conoscenza e di confronto; per un rapporto più equilibrato fra i sessi, le classi e le generazioni. Credo ci sia qualcosa d’altro. Ed è che, malgrado tutte le difficoltà, le tortuosità e i passi indietro che in tante occasioni noi stessi ci siamo inflitti, nella trama antropologica degli italiani ci sono oggi, rispetto a un secolo fa, un condizionamento alla democrazia e un diffuso e introiettato vissuto dell’eguaglianza molto maggiori rispetto a ogni altra epoca della nostra storia. Se è così, non dobbiamo disperare.

Un’immagine di Lorenzo il Magnifico (1449-1492)

GALLI DELLA LOGGIA – La capacità di adattamento di cui parli è sicuramente un dato reale del nostro panorama antropologico, ma sarei più cauto di te nel dargli un valore univocamente positivo. A suo modo, quella capacità di adattamento è anche la propensione al trasformismo, il tratto gaglioffo che sappiamo del nostro carattere nazionale.

Al centro del quale ci sono senz’altro gli animal spirits che tu evocavi. Mi chiedo però se la modernizzazione italiana sia riuscita davvero a farne un valore. Mi sento di dubitarne, soprattutto perché credo che quegli animal spirits in realtà non siano organizzabili. Nel momento in cui lo fossero cesserebbero di essere tali, infatti. Perderebbero la loro plasticità originaria. In ciò io vedo qualcosa di drammatico. Cioè il fatto che se noi italiani vogliamo restare noi stessi, nel senso di restare fedeli a una nostra specifica originalità antropologica, siamo per ciò stesso costretti a un rapporto ambiguo, comunque di non identificazione, con la modernità. Esito a dirlo in questa forma così recisa, ma mi viene da pensare che la modernità sia qualche cosa che al suo fondo si oppone in modo sottile ma reale e profondo al carattere italiano.

Quella che tu hai definito la plasticità rappresenta di sicuro un dato storico di estrema importanza, perché sta forse proprio in essa la ragione principale per cui l’Italia non è stata mai cancellata dalla scena del mondo, perché alla fine gli italiani riescono sempre a ricostituire una qualche forma di presenza collettiva sulla scena del mondo. Probabilmente proprio perché in loro c’è una forma di vitalità estrema, che però fa a pugni con il disciplinamento, ingrediente inevitabile proprio della modernità dispiegata.

Da noi il principio di autorità in genere è culturalmente delegittimato in una maniera e in una misura altrove sconosciute. Tutto ciò ha lasciato in eredità nell’organismo del Paese uno squilibrio, un disordine interiore, che ancora non sono stati riassorbiti. Di questo carattere scompaginante e destabilizzante, non componibile in alcun nuovo ordine ma alla fine solo corrosivo di ogni possibile ordine, è una prova, a me sembra, il fatto che non siamo riusciti a inventare nessun tratto effettivo ed esportabile di modernità italiana. Non c’è alcun tratto specifico di modernità che possa dirsi italiano. All’opposto, per la nostra società diventare moderna ha voluto dire talvolta andare incontro a un vero e proprio processo di snazionalizzazione.

SCHIAVONE – Non saprei dire se davvero non esista alcun tratto di modernità che possa dirsi propriamente «italiano». La nostra socialità urbana, la qualità complessiva della vita collettiva in molte città, soprattutto del Centro-Nord, credo abbia pochi eguali al mondo, e mi sembra un aspetto specificamente italiano della modernità occidentale, una nostra invenzione che molti cercano di riprodurre. Vi è di sicuro uno «stile italiano» nel dar forma alle cose intorno a noi, una maniera di percepire e disegnare la spazialità che ci circonda, una sensibilità alla bellezza e alla grazia, una misura nel rapporto tra vita e pensiero che sono diventati, in tutto il mondo, un’impronta incancellabile del nostro tempo.

Paradossalmente, è proprio la politica – nonostante tutti gli esperimenti che abbiamo tentati con essa nel Novecento – il terreno dove siamo rimasti più indietro, e non facciamo che imitare. E siamo indietro anche per quanto riguarda il nostro spirito pubblico, l’autocostruzione di noi stessi come cittadini; potremmo dire: il compimento dell’individualismo nella cittadinanza. Su questo punto, c’è ancora molto da fare. Come c’è molto da lavorare sulla qualità e la tenuta dei nostri legami sociali. In questo senso, possiamo dire che è mancata la funzione «pedagogica» delle classi dirigenti (fin quando ha resistito, vi è stata però una funzione pedagogica della classe operaia).

GALLI DELLA LOGGIA – In un modo che alle mie orecchie suona molto politico, tu tendi sempre a prospettare le cose in termini diciamo così ottimistico-evolutivi – «siamo rimasti più indietro», «c’è ancora molto da lavorare». Ma così ti impedisci di vedere, secondo me, certi nuclei profondi e immodificabili delle cose. Quanto alla funzione pedagogica svolta o non svolta dalle classi dirigenti italiane, io credo che si debba pensare, invece, all’assenza in genere di disciplinamento sociale, frutto dell’assenza storica di forti poteri politico-statali. A mio giudizio è essenziale: la mancanza nella vicenda italiana della dimensione dell’assolutismo. Tranne il caso di Venezia e della monarchia sabauda, nella penisola abbiamo avuto per moltissimo tempo poteri deboli, piccoli, lontani, privi di grandi ambizioni geopolitiche, quindi non bisognosi di risorse finanziarie e umane da estrarre dai propri stati, e anche perciò inclini a un certo qual complessivo lassismo nei confronti dei propri sudditi. Poteri per giunta alle prese con una controparte religiosa costitutivamente antagonista, schierata a difesa in senso lato delle masse popolari di cui si considerava la naturale tutrice. Per tutto questo insieme di fattori queste masse hanno potuto sottrarsi per lungo tempo a quella penetrante azione normatrice, a quella serie di obblighi indeclinabili e a quella vincolante obbligazione politica verso lo Stato che sono all’origine del senso civico diffuso in tanta parte dell’Europa. Assai più che lo Stato a esercitare il proprio potere sulle masse popolari italiane, molto spesso sotto forma di angheria, fu il nobile, il proprietario terriero dalle caratteristiche più o meno feudali in molte parti della penisola.

È da notare quindi che la stessa assenza di disciplinamento sopra detta a proposito delle classi popolari è valsa anche per le classi dirigenti italiane. Le quali, a causa sempre dell’assenza di un forte potere statale, hanno potuto prosperare in un sostanziale stato di anarchismo, cioè di esercizio arbitrario delle proprie prerogative e del proprio ruolo sociale.