Riprendiamo qui di seguito di Alberto Brambilla, presidente del centro di ricerche “Itinerari previdenziali”, l’articolo pubblicato sul numero del 10 febbraio del “Corriere della Sera”, che illustra con cifre la quota parte di previdenza italiana che viene finanziata dalla fiscalità generale e non dalle entrare contributive dei lavoratori in attività: sono circa 8 milioni di pensionati su 16 milioni.
Brambilla qualifica i trattamenti erogati senza il supporto di contributi previdenziali (in ciò perfettamenete in linea con il punto di vista della triplice sindacale) come “assistenza”, concludendo il ragionamento con un’affermazione finale: la “previdenza” italiana è in ordine. Questa disquisizione, sempre più urlata, su ciò che è previdenza e ciò che è assistenza è puramente nominalistica, perché non elimina l’incontrovertibile realtà secondo la quale tutti i danari provenienti dalla fiscalità generale (quindi dalle imposte) – che li si chiami “assistenza” o li si chiami “Giovanni e Gesualdo” – servono comunque a finanziare una parte dei trattamenti pensionistici erogati dal sistema di welfare italiano. Se l’obiettivo di una tale narrazione è quello di incentivare i giovani a “credere che il nostro sistema previdenziale, al netto dell’assistenza, è sano“, va forse chiarito meglio che il nostro sistema pensionistico è generoso da 50 anni, ma lo sarà via via sempre di meno, per la perversa convergenza fra carriere lavorative discontinue e sistema di calcolo contributivo. Il messaggio da inviare ai giovani è un altro: che anche per loro, come per le generazioni nate fra il 1930 e il 1969, saranno studiati eppoi adeguatamente regolati congegni previdenziali tali da consentire di confidare ragionevolmente in una vecchiaia serena, con tassi di sostituzione retribuzione/pensione migliori di quelli prevedibili con le regole attuali.
Pensioni avare? Brambilla feb 2020