Da sempre in Italia operano due prevalenti modi di approccio ai problemi della burocrazia pubblica mal funzionante, egualmente fuorvianti.
- Un primo “modo” è quello scanzonatamente scandalistico, gestito da giornalisti d’assalto tipo Sergio Rizzo o radical chic alla Tito Boeri ( si veda qui il loro libro “Riprendiamoci lo Stato”); tale approccio è gioiosamente demolitorio – condito sempre da florilegi del tipo “burocrazia inamovibile”, “ le riforme bloccate dalla burocrazia” “la burocrazia blocca il Paese” – si veda fra i tanti https://www.eticapa.it/eticapa/le-riforme-bloccate/) . Gli effetti mediatici di questa forma d’approccio sono chiari: viene ingenerato nell’opinione pubblica un pensiero secondo il quale la burocrazia è un peso in sé e un ostacolo al buon funzionamento dell’economia e della società, che gli impiegati pubblici sono privilegiati e inutili e la burocrazia, intesa come amministrazioni pubbliche, vada ridotta al minimo perché inaccettabile IMPACCIO ALLA SOCIETÀ. Questo approccio ha origini e riferimenti solidi, purtroppo: il pensiero liberista, da Luigi Einaudi all’Università Bocconi di Milano, a Francesco Giavazzi ( si veda qui il confronto televisivo fra le sue teorie e quelle di Mariana Mazzucato ). Essi sostengono da sempre l’idea di uno Stato minimo, da mantenere estraneo ai processi sociali ed economico produttivi. Fortunatamente, nella disgrazia della pandemia in corso, la forza dei fatti si è incaricata di dimostrare quanto vitale e strategico sia stato l’intervento pubblico del Servizio Sanitario Nazionale, delle forze dell’esercito usate per scopi civili , delle forze dell’Ordine, della Protezione civile, degli uffici pubblici chiamati a operazioni straordinarie di erogazione di sussidi. E’ riemersa quasi per incanto la bontà del pensiero di Max Weber sulla “consustanzialità “ fra produzione industriale, razionalità moderna e burocrazia; in più l’economista Mariana Mazzucato ha dimostrato come i più rivoluzionari passi in avanti nel mondo digitale (internet, iphone etc.) mai si sarebbe realizzati senza il ruolo primario delle strategie e dei finanziamenti pubblici di lungo periodo. La pubblica amministrazione, si ammette finalmente a denti stretti, è fondamentale in una società industriale avanzata e va quindi BEN GESTITA e non emarginata e impoverita di risorse.
- Esiste però, più insinuante e raffinata, un seconda modalità d’approccio ai problemi della burocrazia italiana, elaborata nel corso dei decenni da giuristi e accademici , esperti in dottrine della pubblica amministrazione e animatori di riviste specializzate. Tale approccio, ancorché non demolitorio come quello precedente, marca egualmente una irriducibile distanza da una possibile soluzione dei problemi. Le affermazioni e le proposte di riforma di questa corrente di pensiero sono sì atteggiate in positivo (sempre comunque precedute da osservazioni irridenti sulle persone che lavorano negli uffici pubblici), ma si concretizzano sempre in una serie di “buoni consigli”, incontestabili dal punto di vista del buon senso e del buon operare, ma che vanno ricondotti più correttamente alla categoria dei consigli della nonna per una buona cucina. Ci da’ testimonianza storica di questo tipo di approccio l’opera infaticabile del prof. Guido Melis che è andato a ripescare e pubblicare sul sito web dell’IRPA (vedi qui l’articolo) le proposte di riforma degli uffici pubblici nientepopodimenoche del ministro democristiano della riforma della pubblica amministrazione, on. Giorgio Bo, dell’anno 1959. In un’intervista a Giorgio Vecchietti quel giurista prestato alla politica espose una serie di iniziative, tutte auspicabili, che riteneva necessarie per andare “verso uno Stato moderno”. Rimandando al testo integrale dell’articolo rinvenuto dal Melis, è incredibile trovare le seguenti proposte: aumentare gli uffici di informazione, ripulire i vecchi uffici, abolire le paratie e ricavare sale di lavoro più vaste, alleggerire l’onere della documentazione a carico del cittadino, semplificare le procedure. Quando, come per il passaporto o altre pratiche, siano richiesti più documenti, il cittadino sia tenuto a presentare la domanda spetti poi all’amministrazione l’obbligo di provvedere a tutto il resto. Reprimere l’abuso dei pareri facoltativi, eliminare i carteggi e ricorrere al telefono, maggiore decentramento interno, nell’ambito delle varie amministrazioni, di compiti e di funzioni”. Eliminare l’abuso degli automezzi dello Stato non adoperati per l’ufficio, ridurre gli oneri eccessivi delle segreterie particolari, che si riempiono di troppe persone, evitare gli sprechi di cancelleria ecc.”. Non indulgere nelle proposte di introdurre negli organici avventizi e appartenenti ai cosiddetti ruoli transitori, completare il decentramento amministrativo, evitare doppioni e conflitti di competenze: per una medesima questione ci si trova spesso alle prese con quattro o cinque amministrazioni pubbliche contemporaneamente”. Ha un gusto amaro vedere come tutti gli utili modi di snellire la burocrazia italiana fossero già all’attenzione degli addetti ai lavori 60 anni fa e come alcune di quelle (sensate) proposte corrispondano perfino letteralmente alle proposte di riforma che sono state avanzate lo scorso anno nel PNRR ( semplificazione delle procedure, digitalizzazione, interconnessione delle banche dati, snellimento delle procedure concorsuali, etc) .
Perché allora la pubblica amministrazione italiana (pur con la presenza di numerose punte di eccellenza e di qualità) non si è mai riformata, nonostante le ricette periodicamente rinnovantesi nel ceto accademico e politico? A nessuno viene il dubbio che non basti immaginare una serie di utili correttivi se il funzionamento della macchina nel suo complesso, i suoi equilibri, l’assetto dei rapporti fra i poteri non sia “registrato” con norme, regolamenti e prassi ben funzionanti?
Tutte le democrazie occidentali più ricche di storia (Inghilterra, Francia, USA ,Germania, etc) hanno saputo sedimentare nel tempo solidi impianti di funzionamento delle loro burocrazie (termine per loro NON disdicevole come da noi) intraprendendo lunghi percorsi affinché l’amministrazione dei loro Stati possedesse un solido e affidabile IMPIANTO DI BASE . Ogni Paese deve costruire il suo impianto, legato agli specifici valori e principi della comunità. Ma qualunque impianto regolatorio non prescinde mai dall’esistenza di: a) forme di controllo parlamentare sull’operato delle pubbliche amministrazioni; b) autorità indipendenti dalla politica che regolano e coordinano gli aspetti cardine del funzionamento delle amministrazioni, primi fra tutti la gestione del personale e la valutazione esterna dei risultati; c) schemi equilibrati e regolati di autonomia e decentramento territoriale; d) pesi e contrappesi nelle funzioni attribuite alla politica, alla burocrazia e al sindacato; e) un regime di dirigenza pubblica stabile e responsabile; e) la presenza strategica di alte professionalità retribuite a livelli concorrenziali col mercato privato; f) un sistema di lavoro meritocratico non a chiacchiere, ma che premi i pochi eccellenti, punisca i pochi pessimi e riconosca in termini economici il valore dell’esperienza ai tanti che lavorano.
Non che in Italia la regolazione degli equilibri non esista! Certo che esiste! Ma è malamente leggibile ai più per via di norme incomprensibili e di raffinati e occulti giochi di potere, le cui modalità o non sono conosciute, oppure sono sottaciute da quelli “che sanno”. E invece è proprio sul MOTORE della burocrazia italiana che si dovrà soffermare l’attenzione riformatrice dei migliori; si scoprirà così che è molto facile concepire “ricette della nonna”, ma la vera battaglia si combatte nella direzione di un migliore assetto dei poteri, con il ruolo e i rapporti di forza della politica, del sindacato e della dirigenza pubblica completamente riscritti. La qualità dei servizi pubblici dipende del buon assetto dei poteri di chi gestisce la burocrazia pubblica. Se l’assetto è squilibrato e sbilenco il buon andamento delle pubbliche amministrazioni rimane solo un principio teorico.
Senza un sistema di equilibri dei poteri completamente rivisto nessuna riforma della pubblica amministrazione italiana andrà mai in porto.
Giuseppe Beato